
Il settore tessile è il quinto produttore di emissioni di gas a effetto serra in Europa, dopo il cibo, l’edilizia e i trasporti, oltre a consumare grandi quantità di acqua e di materie prime. Basti pensare che, secondo il United Nations Environment Programme, si stima che l’industria della moda sia responsabile del 10% delle emissioni di CO2 al mondo, superando le emissioni del trasporto internazionale aereo e marittimo insieme. Inoltre, secondo Ellen McArthur Foundation, ogni anno sono più di 90 miliardi i metri cubi di acqua dolce utilizzati per produrre vestiti, magliette, pantaloni etc. In questi giorni dove come ogni anno si ritorna a parlare di siccità quei metri cubici sono ancora più importanti.
Le conseguenze ambientali non si limitano a emissioni e utilizzo di materie prime. I tessuti utilizzati per creare capi d’abbigliamento sono sempre più composti da fibre sintetiche, che sì hanno permesso di abbassare i prezzi, ma allo stesso tempo hanno un enorme impatto sull’ambiente. Alla produzione tessile sarebbe da imputare il 20% dell’inquinamento globale delle acque pulite a causa dei prodotti di tintura e finitura. Ad esempio, il lavaggio dei capi sintetici rilascia negli oceani circa 0,5 milioni di tonnellate di microfibre all’anno diventando responsabile del 35% delle microplastiche primarie rilasciate nell’ambiente. In aggiunta a tutto questo, la maggior parte delle fibre sintetiche utilizzate hanno bisogno di circa 200 anni per decomporsi.
Alla fine del loro ciclo di vita, i prodotti tessili finiscono spesso tra i rifiuti generici e vengono inceneriti o messi in discarica. Quando i rifiuti tessili vengono raccolti separatamente, i tessuti vengono selezionati e riutilizzati, riciclati o smaltiti. Tuttavia, nel 2017 Ellen McArthur Foundation ha stimato che meno dell’1% di tutti i prodotti tessili nel mondo viene davvero riciclato.

Credits: Megan Knapp
Per dare un’idea dei quantitativi di rifiuti generati basti pensare che dal 1996 la quantità di vestiti acquistati pro capite in Unione Europea è aumentata del 40%. Un incremento favorito da un forte calo dei prezzi che però è stato accompagnato da una riduzione nella durata di vita degli indumenti. Ogni anno un cittadino europeo utilizza in media 26 kg di vestiti, scarpe o altri tessuti mentre ne getta via circa 11 kg. Nell’UE ci sono circa 447 milioni di abitanti: a voler fare i conti i numeri diventano parecchio importanti.
Nonostante questi dati siano pubblici e alla portata di tutti, ogni anno pile di vestiti finiscono nelle discariche di tutto il mondo e causano uno spreco di risorse ed energie che potrebbero essere usate per altri fini.
Per cercare di porre un freno a questa catena di sprechi, la Commissione Europea ha pubblicato parte di un pacchetto legislativo per l’economia circolare che si concentra, tra gli altri, sul settore tessile. L’obiettivo è fare in modo che tutti i prodotti tessili siano di lunga durata, riciclabili, realizzati con fibre riciclate e privi di sostanze pericolose. Le nuove regole infatti puntano a obbligare le case di moda a utilizzare un quantitativo minimo di fibre riciclate entro il 2030. Inoltre, la proposta vuole vietare la distruzione tanto dei prodotti invenduti (es. capi d’abbigliamento fuori moda) quanto dei vestiti nuovi che vengono restituiti al negozio (es. la taglia è troppo piccola o il modello non veste bene come nella foto online). È infatti meno costoso per l’azienda di moda bruciare o gettare in discarica questi capi invenduti che rimandarli in magazzino, e tantomeno aggiustarli o stirarli.
La proposta è stata fatta e le case di moda hanno già da qualche tempo capito che la carta della sostenibilità può essere quella vincente se giocata bene. Si rischia il greenwashing? Probabile. Ma la speranza è che un cartellino verde arrivi a significare un vero impegno verso una moda sostenibile.
Immagine di copertina: Discarica di vestiti nel deserto di Atacama, Cile. Credits: Martin Bernetti/AFP