
Dormiamo per un terzo della nostra vita. A 25 anni possiamo dire di aver trascorso circa 9 anni dormendo, due anni e mezzo dei quali sognando. Sono dati che quasi spaventano se pensiamo a ciò che potremmo fare in tutto questo tempo invece che poltrire. Non è poi disadattivo restare isolati dal mondo esterno così a lungo? Apparentemente no, altrimenti l’evoluzione sarebbe già intervenuta. Dormire non è soltanto uno degli svariati comportamenti utili che abbiamo a disposizione nel nostro repertorio. È essenziale.
L’equilibrio tra sonno e veglia è fondamentale a tal punto che, per omeostasi, protratti periodi di veglia vengono automaticamente compensati con un successivo periodo di sonno più lungo e/o più profondo.
Per di più, la deprivazione di sonno produce importanti conseguenze negative. Si possono infatti avere intrusioni di sonno durante la veglia (porzioni di cervello si “addormentano” alternatamente o funzionano in modo anomalo durante la giornata, dandoci un’evidente parvenza di zombie) e conseguenti compromissioni del funzionamento cognitivo, affettivo e comportamentale (non riusciamo a mantenere l’attenzione, siamo rallentati, nervosi e sopraffatti dal pessimismo cosmico leopardiano). Come si può intuire, ciò che risente maggiormente della deprivazione di sonno non è tanto il nostro corpo (che si può tranquillamente riposare sul divano mentre ascoltiamo la musica o guardiamo un episodio della nostra serie TV preferita), quanto chi lo dirige: la nostra mente, il nostro sistema nervoso.
Il sonno e i sogni sono parte fondante ed ingombrante della nostra vita psichica. Non a caso nell’immaginario collettivo la psicologia viene spesso associata – talvolta in modo riduttivo – all’interpretazione dei sogni. Certo, soprattutto per i professionisti che si occupano di psicoanalisi, l’interpretazione dei sogni è uno degli strumenti presenti nella cassetta degli attrezzi per la psicoterapia, ma la realtà è che poche o nulle sono le risposte certe in merito alla funzione e al significato del sonno e dei sogni. Nell’ultimo decennio il lavoro congiunto di psicologi e neuroscienziati ha fornito dati importanti sulla natura e sull’architettura del sonno (abbiamo sentito tutti parlare almeno una volta di fasi REM e Non-REM). La sua funzione è invece ancora in gran parte misteriosa, ma lo studio delle caratteristiche psicofisiologiche di questo fenomeno ha permesso agli esperti di sviluppare alcune illuminanti ipotesi.
No, purtroppo non interpreterò il sogno che avete fatto la scorsa notte e non so nemmeno risolvere l’enigma finale del film Inception di Christopher Nolan, ma cercherò di spiegarvi perché Morfeo è probabilmente uno dei maggiori responsabili della nostra (in)capacità di acquisire e ricordare nuove informazioni e della nostra (in)stabilità emotiva.
Mentre dormiamo il nostro cervello non è offline, ma si concentra su sé stesso mantenendo attive in particolar modo aree cerebrali coinvolte nei processi di memoria e di elaborazione delle emozioni.
Partiamo dalla memoria.
Il sonno sembra essere responsabile del trasferimento dei ricordi acquisiti durante la giornata in magazzini di memoria accuratamente organizzati. Per spiegarmi meglio userò una metafora proposta dagli stessi ideatori di questa ipotesi sul sonno. Morfeo agirebbe come un bibliotecario che, a sera, ripone negli scaffali ordinati della sua biblioteca i libri lasciati in disordine sui tavoli. Al mattino, i tavoli sarebbero così ripuliti e liberi di ospitare nuovi libri, mentre negli scaffali i volumi già riordinati sarebbero facilmente raggiungibili. Questo Morfeo-bibliotecario, tuttavia, pare essere sempre in vena di far ripulisti. Mentre i nuovi libri ritenuti utili e interessanti andrebbero ad arricchire le sezioni della biblioteca consultate spesso, i libri ritenuti di poco valore, inutilizzati o vecchi sarebbero eliminati da Morfeo durante la notte per ottimizzare lo “spazio di archiviazione”. In neuroscienze cognitive chiameremo i libri “informazioni”, le scrivanie “ippocampo” (aree cerebrali che prendono il nome dalla loro simpatica forma) e i diversi scaffali rappresenteranno i numerosi networks della corteccia cerebrale.

Cosa succede se non dormiamo? La deprivazione di sonno renderà difficile sia il recupero di informazioni già acquisite sia l’acquisizione di nuove informazioni il giorno successivo. Quindi: fatevi una bella dormita il giorno prima di un esame importante così che Morfeo possa preparare la biblioteca alle richieste che arriveranno e non pretendete troppo dal vostro cervello se la notte prima avete fatto le ore piccole e non avete dato a Morfeo modo e tempo di far spazio per le nuove informazioni che vorreste immagazzinare.
E le emozioni?
Quando si dorme poco o male, è esperienza comune alzarsi poi di malumore e trascorrere le ore seguenti all’insegna della negatività: nel corso della giornata, a parità di situazioni positive e negative, la carenza di sonno sembra intaccare prevalentemente la codifica di ciò che è positivo, mentre l’elaborazione di informazioni negative sarebbe più resistente a questo processo (forse per la rilevanza dal punto di vista evoluzionistico). Questa ipotesi è supportata anche dai dati relativi alla psicopatologia. Disturbi del sonno e alterazioni del tono dell’umore vanno infatti a braccetto nella maggior parte dei disturbi mentali, primi tra tutti la depressione e il disturbo da stress post-traumatico.
Quando riusciamo a dormire e a cadere nella famosa fase REM del sonno, invece, il caro Morfeo sembra essere un abile terapeuta. Secondo il neuroscienziato Matthew Walker, uno dei massimi esperti sul sonno, dormiamo per ricordare gli eventi e la loro “etichetta emotiva”, ma dormiamo anche per dimenticare gradualmente l’impatto emotivo a livello fisiologico, l’arousal (attivazione generale del sistema nervoso) generato dall’evento.
Un esempio. Il ricordo di una situazione traumatica – come un lutto, ma anche una rottura amorosa, un violento litigio – sarà inizialmente così intenso da provocare tachicardia, “pelle d’oca”, lacrime agli occhi. Poi, come dicono saggiamente i nostri nonni, bisogna “dare tempo al tempo” o, come diremo noi, “dare tempo alla fase REM”. In questa fase del sonno, infatti, il particolare funzionamento di alcune aree cerebrali aiuterebbe a ridurre l’arousal (qui tachicardia, “pelle d’oca”, crisi di pianto, quindi attivazioni invasive e a lungo andare disfunzionali) legato alla memoria dell’evento “emotigeno” (così si dice di situazioni in grado di provocare emozioni). Ciò permetterebbe di archiviare, dopo diverse notti e diverse fasi REM, un ricordo costituito solamente dall’evento oggettivo e dall’“etichetta” dell’emozione provata all’epoca dell’evento (qui “litigio+tristezza”, quindi informazioni utili e funzionali per il nostro agire futuro).

Infine, i sogni.
Pare che il nostro cervello metta in scena i sogni più vividi proprio quando siamo nella fase REM del sonno. I sogni hanno solitamente un contenuto emotigeno fortemente attivante, sono spesso legati ad eventi avvenuti il giorno precedente, a preoccupazioni, a pensieri ricorrenti. Una teoria che ben si inserisce nella dinamica di regolazione emozionale sopra descritta è che i sogni tendano a “spezzettare” gli eventi della veglia in “unità di ricordi” più semplici e più facili da regolare, poi ricombinate simulando nuovi contesti, quasi per “addestrarci” ad affrontare possibili (o impossibili!) situazioni future.
Ci sono poi i desideri, i tabù, l’inconscio e tutto il lavoro degli psicoanalisti a partire da Freud. Ma quella è tutta un’altra storia.
Intanto ci basti sapere che, seppur affascinante da tratti diversi di Morfeo, neuroscienze e psicoanalisi concordano nel riconoscere il suo enorme potere su cognizione ed emozioni e nell’eleggerlo miglior alleato per la psicoterapia.
Immagine di copertina: “A letto” opera di Federico Zandomeneghi, 1878.