
Incamminandosi verso la Chiesa della Natività si rimugina su quanto appena vissuto, rigirando tra le dita il piccolo magnete che si è comprato: c’è l’immagine canonica della Cupola della Roccia, che svetta dorata sulle case bianche di Gerusalemme, la città abbagliante. La parola “soglia” è quella che con più insistenza torna a presentarsi nella mente: se n’è attraversata una fisica – il Muro – per venire qui, ora se n’è appena incontrata un’altra, stavolta comunicativa e umana, e non la si è potuta, o voluta, varcare. Ma – ecco che il dubbio comincia a prendere corpo – forse non si è oltrepassato nemmeno il confine concreto, e si è come quei pellegrini della mattina, carichi di sacchetti, che senza darsi cura del contesto si beavano dei propri futili acquisti.
Si torna nella piazza: l’ora di pranzo è passata da poco, il sole non dà tregua e molti turisti devono essere caduti preda della sonnolenza pomeridiana, perché la coda alla Basilica è svanita: occorre affrettarsi e approfittarne. Di nuovo una soglia, questa reale e minuscola: la chiamano “Porta dell’umiltà”, l’unico accesso alla Chiesa della Natività, alta un metro e mezzo scarso, che costringe a chinarsi per entrare. Si dice che i Crociati abbiano ridotto a queste dimensioni l’antico portale per impedire l’ingresso di soldati a cavallo, che avrebbero potuto rivendicare il possesso del luogo. Qui va così, anche i coloni israeliani non sembrano in fondo fare molto di diverso – arrivano dal giorno alla notte in terre palestinesi, vi si stabiliscono, ci restano. Un insediamento si vede anche da Betlemme, abbarbicato su una collina a nord, protetto da recinzioni e soldati. Dall’esterno la Basilica sembra una fortezza di pietra – e come una fortezza, nel 2002, fu assediata dall’esercito israeliano che dava la caccia a dei miliziani palestinesi che vi avevano trovato rifugio. Si combatteva la Seconda Intifada, l’assedio durò 39 lunghi giorni. Dentro la chiesa si respira un’atmosfera bizantina: sull’altare c’è una grande pala con icone ortodosse, pesanti candelabri pendono dal soffitto e quattro monaci austeri celebrano una messa cantata, con tono grave. Prima di poter scendere nella cripta bisogna aspettare che finiscano, così la coda si blocca nel transetto riempito d’incenso. Intanto due guardie palestinesi si muovono sull’altare, disarmate ma decise nell’intimare ai fedeli di rispettare il silenzio. Vigliano sull’ordine pubblico – non sempre sereno viste le diverse confessioni ospitate –, ma anche su quello che, in fondo, è pure il luogo di nascita di un profeta dell’Islam, Isa – «su di lui la pace», come dice il Corano.

Però qui di pace ce n’è poca, finito il rito la folla si rimette in moto e la calca diventa opprimente. Una volta scesi nella cripta, poi, il fastidio è insopportabile. Sul pavimento, a destra, c’è una stella d’argento, nel punto in cui si crede sia nato Gesù; a sinistra invece si trova la mangiatoia, in una piccola nicchia. Proprio qui due giapponesi si stanno immortalando con un bastone da selfie, mentre dalle scale sta scendendo a gomitate una coppia di americani, dietro alla loro guida appositamente pagata per far saltar loro la fila. Si decide che è troppo e si cerca l’uscita, percorrendo al contrario la coda ora allungatasi a vista d’occhio. Appena fuori dalla piccola porta per poco non ci si scontra con un venditore di cartoline, che agita la sua merce davanti al naso dei turisti, proponendola a prezzi stracciati. Sul volto bruno, coperto da una barba incolta, si apre un sorriso buono, che segue poche stentate parole con cui cerca di piazzare un mazzo di santini. Lo sguardo cade sulle mani che reggono quel misero assortimento: hanno due dita per una, e sono fasciate dai polsi in su. Cosa ti è successo, fratello? Si pensa subito a un ordigno, a una mina raccolta per sbaglio in un campo mentre si lavorava a cottimo per poche lire: ma magari è stato solo un incidente banale, domestico, e non c’entrano le bombe. Bisognerebbe avere il coraggio di chiedere, di aprire un varco e sfondare questa ennesima soglia. Come le altre, anche questa è il prezzo di tante cose: della differenza, della distanza, dell’ignoranza delle reciproche vite. O forse di nessuna, solo dell’ignavia del viaggiatore. Basterebbe così poco: fermare un passante, sorridergli, porgli una domanda. Gesto semplice, ma vertiginoso in un luogo come questo, dove tutto sembra sul punto di saltare, come il tappo di una bottiglia sbattuta troppo. Si comprende il valore abissale, evangelico, di certi gesti banali, come quello della voce che rompe il silenzio tra due uomini e inaugura una nuova storia, un nuovo mondo, un altro modo di guardare: “Ma dì soltanto una parola…”.
Comprato un mazzetto di segnalibri, a testa bassa si ridiscende verso il viale che cinge la città antica, ma stavolta si procede a piedi per contemplare la Betlemme vera, dove non si ammassano turisti e pellegrini. C’è molto sporco – certo i soldi per la manutenzione pubblica non sono gli stessi d’Israele, che in certi suoi quartieri luccica di pulizia. Però i negozi non mancano, e la clientela, a quel che sembra, nemmeno. Ci sono anche una gelateria italiana, un ristorante cinese, una steak house con la bandiera a stelle e strisce. Ma ora la stanchezza si fa sentire: comunque stiano le cose, non si ha più voglia di ragionare, né di azzardare analisi socio-economiche. Si gira ancora un po’, finché ci si ritrova seduti su un muretto a guardare il panorama della vallata che s’apre su un piccolo tratto senza abitazioni. Poche settimane dopo questa visita l’attacco di Hamas da Gaza aprirà un altro tremendo capitolo della guerra senza fine che insanguina questa terra, e la reazione, altrettanto spaventosa, di Israele sembrerà condurre tutti verso un baratro ignoto, mai visto, di smarrimento e terrore. Lì, su quel muretto panoramico da cui in lontananza si vede anche la sottile striscia del Muro, ancora non si sa nulla, ma si percepisce un brivido strano, forse per il sole che comincia a calare o forse per un’idea che come uno scherzo cattivo comincia a contaminare i pensieri: che non ci facciano più uscire da qui? Che la soldatessa gentile d’un tratto ci mostri il suo vero volto, che avevamo frainteso, e ci stracci i documenti? Si è presi dall’ansia, dall’istinto di dimenarsi come fanno i pesci intrappolati nella rete, senza respiro. Ci si alza di scatto e si punta verso l’albergo, a passi svelti e cercando di non pensare a nulla. È tardo pomeriggio, le comitive scendono in lunghi gruppi dalla Città Vecchia e le strade si ingolfano di pullman che riportano i pellegrini nei loro hotel a Gerusalemme. Si dice che il mondo sia un giardino, dove i recinti sono l’anomalia e la norma è sentirsi ovunque di casa. Eppure adesso, alle soglie dell’imbrunire, in questa cittadina recintata da una cortina di cemento vigilata da gracili soldatesse, ci si è ormai convinti del contrario: il mondo è fatto di muri, le soglie restano chiuse, la libertà è l’eccezione.

Giunge la sera, verso il Mediterraneo la luce ancora resiste, a est invece il buio ha già inghiottito i wadi e gli alberi con i fichi maturi: dorme anche il Campo dei pastori, dove l’Angelo annunciò la Buona novella. La strada comincia a riempirsi di macchine, alla guida ci sono ragazzi prestanti, ben pettinati, che lanciano occhiate di sfida e sgasano di fronte ai turisti. Pian piano aumentano, la via risuona di clacson e grida, odore di pneumatici. Una vitalità arrogante, tenebrosa e ipnotica, travolge tutto, e si propagherà per ore. Non si sa che cosa facciano nella vita, né che cosa pensino questi maschi rumorosi la cui arida patria è oppressa e per i quali ogni prospettiva di futuro è desolante. Sorge il dubbio che davanti agli occhi, più che un carosello di felicità, scorra una giostra di disperazione. Di fianco all’albergo c’è un lungo muro, coperto da un grande disegno. È ben fatto, deve aver avuto una benedizione ufficiale. Vi è ritratta Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera uccisa a Jenin l’11 maggio 2022 da un colpo vagante, un’eroina per molti palestinesi. Ha un giubbotto antiproiettile su cui si legge la scritta «PRESS», mentre sul viso l’espressione è beffarda, da chi conosce la vita. Nuovi pensieri, quasi presaghi, vengono ora a inquietare la mente. Ci si rammenta della guerra e delle vite spezzate: ecco il pericolo, la paura e un’altra soglia, la più nera, oltre la quale si può cadere e sparire, senza tornare. Ma è una soglia su cui adesso non si vuole indugiare. Ormai è tempo di lasciare alla notte Beit Lehem, casa di quel che di più semplice si può trovare nel mondo: il pane, i muri.
Immagine di copertina: Vista notturna di Betlemme.