Il panorama di Betlemme [1]

La giornata di un occidentale nella città palestinese che ha dato i natali a Gesù, divisa da Gerusalemme dal famigerato muro e affollata di pullman, negozi di souvenir e comitive.

Beit Lehem: all’apparenza nessun toponimo sembra più semplice di questo, che unisce le due parole ebraiche «Beit», casa, e «Lehem», pane. Un etimo potente, che in un sol tratto evoca un abisso antico di pastori e povertà, forni domestici e fatica sotto il sole e il gelo che rompono pietre e schiene. Un richiamo, scarnificato fino all’essenza, alla durezza e semplicità del vivere – questo c’è nel nome di Betlemme – “Casa del pane” –, la città di Gesù, dall’inizio degli anni Duemila separata dalla periferia di Gerusalemme dal muro di cemento che divide la Cisgiordania, o Territori Palestinesi, da Israele. Ci si arriva in auto, dall’aeroporto “Ben Gurion” di Tel Aviv, in una mattina di metà settembre, calda e col cielo azzurro. Prima del checkpoint si vedono sul ciglio della strada gruppi di palestinesi, un po’ in piedi e un po’ seduti: sono lavoratori betlemiti a giornata che aspettano in grazia una chiamata per portare a casa la sera, appunto, il pane. Vivono in Palestina, ma vanno a lavorare in Israele, la nazione in fermento, che dalla costa fino ai margini del deserto è un unico brulicante cantiere. Ironia della sorte, sono proprio questi palestinesi, che di notte dormono al di là del confine, ad offrire, di giorno, manovalanza per le infrastrutture fiammanti dello Stato ebraico – «molti di loro – dice una guida – hanno dovuto costruire anche il Muro: hanno tirato su la propria prigione». 

Ci si avvicina al checkpoint, ed eccolo, il Muro, alto e brutale, annunciato da uno schieramento di telecamere sui pali della luce. Assoluto divieto di fare foto, «ti rompono il cellulare per terra» raccontano le guide ai loro gruppi. La macchina si avvicina, la sbarra è abbassata, tra un attimo si vedranno le sembianze dei soldati dell’esercito israeliano, uno dei più potenti del mondo. Un energumeno barbuto, con gli occhi pesti, armatissimo, sta appoggiato a un palo e guarda altrove: incute timore, ci si aspetta che si volti e ci guardi, ma al finestrino si affaccia invece una ragazza, sui vent’anni, minuta e coi capelli cortissimi, il viso pulito e dei piccoli occhiali rotondi  con la montatura metallica. In un altro contesto la si potrebbe scambiare  per una studentessa o un’animatrice di circoli culturali, ma ora, qui, qualsiasi cosa lei sia è celata da una spessa tuta mimetica, dal giubbotto antiproiettile e dal mitra, più grande di lei. Dà una rapida occhiata ai passaporti, fa qualche domanda svelta in inglese – «da dove venite?», «dove andate?», «dove alloggiate?» –, poi rende i documenti in silenzio e fa un cenno dentro la cabina, la sbarra si alza e l’auto varca il confine, non senza sollievo. Ecco, inaspettato, è venuto il primo sussulto della giornata. Si pensava di avere delle certezze, di saper fissare senza pietà i contorni, già noti, dell’oppressore – ma poi è comparsa questa giovane, che in un luogo diverso farebbe altro e qui è inchiodata ai suoi ordini – fermare, perquisire, interrogare, all’occorrenza sparare – e non si capisce bene perché proprio a lei abbiano messo addosso quell’armatura da truce soldato. In Israele la leva militare è obbligatoria anche per le donne e dura due anni, contro i 36 mesi dei maschi, e sottrarsi è difficile. Con un certo malessere ci si inoltra per Caritas Road, la strada che conduce al centro di Betlemme: ci si aspettava di essere scrutati dagli occhi fiammeggianti di un fanatico, si sono incontrate due pupille timide, dietro lenti da intellettuale.

Betlemme, Banksy
Il murale di Banksy (Foto dell’autore)

A destra ogni tanto si intravede ancora il Muro, che dal lato israeliano è immacolato, come ammutolito dalla minaccia delle armi, mentre qui è affollato di graffiti, ritratti di martiri sorridenti con le kefiah e scritte, rigorosamente bianche rosse verdi e nere, i colori della bandiera palestinese. C’è anche la famosa colomba di Banksy, sul muro dell’officina di un meccanico, col ramoscello d’ulivo nel becco e sul corpo il giubbotto antiproiettile, minacciato da un mirino. A sinistra, invece, ci sono palazzi alti, con ingressi pretenziosi e sfavillanti. Se ne contano almeno tre, scendendo lungo il viale d’ingresso alla città. Sono negozi di souvenir per pellegrini, gestiti da arabi cristiani: tengono la porta chiusa e spessi tendaggi neri ne oscurano la vista dell’interno, ma una volta entrati ci si ritrova dentro enormi saloni, dove si è annichiliti dalla quantità smodata di oggetti esposti – madonne di ogni tipo, santi di ceramica, ceri monumentali, presepi lignei incensi e rosari, più una miriade varia di altri ninnoli, tanto numerosi quanto cari. Ciarpame votivo, che attende le torme di europei e americani che a turno si fanno risucchiare da questi outlet del sacro, a pochi metri dallo squallido muro. Anche mentre passiamo noi, coppie di pullman in sosta ingombrano la strada e decine di turisti si dirigono verso i loro sedili con le braccia cariche di pacchetti. Nemmeno il tempo di passare il confine, e già gli autisti li hanno fatti scendere a razziare scaffali. Ma avete almeno capito – verrebbe da chieder loro – che soglia avete appena passato?

Domanda senza risposta, che si è costretti a tenere per sé. Alla fine di Manger Street finalmente si scende dall’auto, dopo aver parcheggiato in un immenso autosilo ingombro di pullman. Fuori, all’aria aperta, c’è il solito odore del Medioriente, un po’ dolciastro, e il traffico sregolato, anch’esso endemico. Sulla breve salita che porta alla piazza principale, su cui si affacciano la Basilica della Natività e la Moschea di Omar, l’unica della città antica, sgommano automobili e taxi con la targa verde palestinese, in uso dai tempi degli Accordi di Oslo degli anni Novanta. Qui ci troviamo nella zona A, interamente amministrata dall’Autorità Nazionale Palestinese (Anp); la zona B, invece, è sotto controllo congiunto palestinese e israeliano, mentre la zona C è civilmente e militarmente governata da Israele. Ma la Palestina è un colabrodo, un territorio volutamente frammentato, per strategia, dagli occupanti, con fili spinati, checkpoint, posti di blocco, insediamenti di coloni un po’ ovunque a tagliare la strada a chi sul proprio veicolo porti una targa di colore verde.

Betlemme, Manger Square
La piazza con la Moschea di Omar (Foto dell’autore)

Su un cartellone nei pressi del Centro francescano sorride Papa Francesco, che qui venne nel 2014, mentre qualche metro oltre, su un muro, ci sono le facce serie di Arafat e Abu Mazen, l’attuale anziano leader dell’Anp. Nella grande piazza assolata alcune donne velate chiacchierano tranquille su delle panchine, fuori dalla Basilica si sta già formando la coda, ma la si visiterà più tardi, prima si preferisce addentrarsi per le stradine della Città vecchia. Il suq è animato, e i caffè con i melograni vermigli esposti di fianco alle spremiagrumi di ottone mettono di buonumore, verrebbe voglia di farsi riconoscere come amico dagli abitanti che affollano la via. Dal 2007 anche Brescia è gemellata con Betlemme, in fondo si ha qualcosa in comune. Ma la propria città è lontana, e sarebbe difficile farsi capire. Lo specchio di un bazar sul marciapiede coglie di sorpresa il passante e riflette un’immagine deprimente – da fuori si è uguali agli altri, un turista come tutti. Ci si sente improvvisamente su una soglia, più dura di quella di cemento che si è oltrepassata poc’anzi – di là c’è un mondo, di qui un altro, e non si trova il passaggio: la comunicazione non va oltre gli sguardi, che si rimbalzano l’un l’altro immagini distorte e parziali. Senza sapere come, per inerzia, si varca l’ingresso di un negozio. Si compra una calamita, ma il venditore, un giovane palestinese robusto, è distratto. Indica accigliato l’interno, dove una decina di tappeti stanno gettati alla rinfusa sul pavimento. «Fucking americans» dice mentre riordina in fretta il locale. «Hanno ribaltato tutto, senza comprare niente». È educato, ma non ricambia con troppa convinzione il sorriso, sembra sempre sul punto di scattare, in un impeto di rabbia o di stizza. E d’un tratto, al suo cospetto, si rimane atterriti al pensiero che proprio lui – qui, ora – ci stia guardando, ennesima apparizione di occidentali, con il sacchetto di plastica dei souvenir in mano e la goffa premura di dire: siamo con voi. Quei gesti bruschi delle sue mani sembrano rivelare ben altro dall’opinione che vorremmo avesse di noi, e ora si proverebbe quasi sgomento all’idea di chiedergli «ma tu, davvero, che cosa pensi di me?». 

Fine prima parte

Betlemme, Città vecchia.
Una strada della Città vecchia di Betlemme (Foto dell’autore)

Immagine di copertina: Vista della periferia di Betlemme (Foto dell’autore).

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