ragazzino con pallone tenuto fuori da un campo di gioco
Lo sport come mezzo di integrazione dei migranti. In occasione della giornata mondiale del rifugiato abbiamo cercato di analizzare la questione.

Dal 2001 il 20 giugno si celebra la giornata mondiale del rifugiato, data che allora segnava i 50 anni dall’approvazione della Convenzione ONU sullo statuto dei rifugiati. Tale convenzione non solo definisce i rifugiati e i loro diritti, ma anche gli obblighi che gli Stati firmatari hanno nei loro confronti. La sua base giuridica è l’articolo 14 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: «Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.» L’ultimo rapporto UNCHR (l’Agenzia ONU per i Rifugiati) datato 2022 ha evidenziato come siano ben 89 milioni le persone forzate a migrare nel mondo. Di queste 21,3 sono qualificate come rifugiati avendo cioè ottenuto la protezione internazionale nel paese di destinazione.

La percentuale di chi ha ottenuto lo status di rifugiato è dunque sensibilmente inferiore al numero complessivo di persone effettivamente coinvolte nel fenomeno delle migrazioni forzate. La variabile fondamentale rispetto a questo dato sono le decisioni politiche dei governi nazionali, che costruiscono barriere fisiche e giuridiche per bloccare i flussi migratori, influenzando inevitabilmente il numero di quanti possono far valere il proprio diritto a essere accolti in paesi sicuri. Un paio di esempi lampanti di queste politiche sono il muro costruito al confine tra USA e Messico e, molto più recentemente e molto più vicino a noi, il nuovo decreto del governo Meloni che limita sostanzialmente i canali di accesso alla protezione internazionale dei migranti che arrivano sul suolo italiano. Eppure, come scritto sul sito dell’UNCHR in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato 2022: «Tutte le persone costrette a fuggire hanno (o per lo meno avrebbero ndr) il diritto di essere protette e a ricostruire le loro vite, senza distinzioni.»

il Team Olimpico dei rifugiati sfila a Tokyo 2020, bandiera olimpica sullo sfondo
Il Team Olimpico dei Rifugiati sfila a Tokyo 2020.
Copyright 2020 IOC/Ubald Rutar.

Alla luce di questa situazione, indaghiamo un aspetto importante per quanto poco considerato: quale ruolo che può avere, nelle vite di chi fugge dal proprio paese, l’attività sportiva, sia come metodo di integrazione nelle nuove società sia come vero e proprio diritto. Del resto anche Nelson Mandela affermava: “Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare. Esso ha il potere di unire le persone in un modo che poche altre cose fanno.”Un esempio lampante di questo si può individuare nella figura di Eduardo Camavinga, giovane calciatore della nazionale francese e del Real Madrid, che si è pubblicamente esposto come sostenitore dell’UNCHR proprio in quanto ex rifugiato. Camavinga è infatti nato in un campo per rifugiati in Angola, quando i propri genitori erano in fuga dalla guerra. Un’eredità che il trasferimento in Francia ed il successo sui campi da calcio non hanno cancellato, e che anzi rivendica, facendosi testimonial in prima persona per i rifugiati cercando di diffondere consapevolezza sull’argomento.

Nella bagarre politica infatti, spesso i rifugiati vengono trattati come argomento elettorale, tralasciando che dietro le dichiarazioni dei politici vi sono persone che vengono sistematicamente oscurate insieme ai loro diritti. Tra questi figura anche il diritto a svolgere attività sportive, promosse come fondamentali per lo sviluppo della collettività sia dai trattati dell’UE che da altre convenzioni internazionali. Gli studi svolti a riguardo (non molti, qui potete trovarne una panoramica) evidenziano infatti come lo sport favorisca l’integrazione e l’inclusione sociale, nonché l’inclusione e l’appartenenza ad una comunità in particolare dei giovani rifugiati, incentivando lo scambio e la comprensione tra persone con un simile background migratorio, ma anche con coloro che erano già parte della comunità accogliente. Non si può però ignorare l’altra faccia della medaglia: infatti secondo alcuni studi sembrerebbe che lo sport abbia la tendenza a cancellare la specificità dell’esperienza e del background culturale dei migranti in favore di una assimilazione totale della cultura del paese ospitante.

Bambini con maglietta bianca “No to Racism” dell’UEFA
Bambini accompagnano i calciatori all’ingresso in campo.
Copyright AFP/Getty Images.

Questo sradicamento si manifesterebbe già a partire dalle numerosissime barriere che i rifugiati tendono ad incontrare nell’accesso all’attività sportiva che possono o dissuadere dal cominciare o continuare il percorso sportivo o addirittura portare a nascondere il proprio percorso migratorio. Alle barriere ad esempio economiche o infrastrutturali si aggiungono del resto problematiche sistemiche delle società che si riflettono in ambito sportivo. Basti pensare ai ripetuti episodi di razzismo avvenuti durante questa stessa stagione negli stadi di calcio europei. Nonostante diverse campagne della UEFA e delle varie leghe nazionali, i fenomeni di discriminazione razziale non sono diminuiti. L’ultimo in ordine di tempo ma non di importanza è quello che ha avuto per involontario protagonista un compagno di squadra di Camavinga al Real Madrid, Vinicius Jr, il quale dopo aver subito per l’intera gara insulti razzisti da parte dell’intero stadio è stato espulso per un fallo di frustrazione. Se certi episodi accadono nelle leghe maggiori, è facile immaginare quali discriminazioni più o meno velate possono subire i rifugiati che praticano o cercano di praticare sport anche solo a livello amatoriale.

Inoltre, nonostante i benefici per la salute psicofisica apportati dal praticare sport, gli incentivi e gli sforzi in questo campo sono limitati. In primo luogo perché una maggiore attenzione e dunque maggiori fondi sono ovviamente dedicati alle prime necessità di base dell’accoglienza come cibo, case e servizi sanitari. Questo nonostante l’UNHCR abbia in essere azioni e dossier per favorire l’attività sportiva. Esempi positivi si trovano nei posti più disparati, ma sono molto spesso demandati ad iniziative dal basso (qui un esempio in Grecia). Insomma, ancora una volta la palla passa nel campo della politica, per far sì che storie come quella di Eduardo Camavinga non rimangano una bella storia di testimonianza ma diventino un’ispirazione per incidere ed aiutare quante più persone che si trovano rifugiate nel mondo.

Immagine di copertina: Illustrazione di Orsola Sartori.

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