
In un certo senso, scrollare per ore è un piacere, in quanto dà soddisfazione, è appagante. È provato infatti che mettere like rilascia dopamina, lo stesso neurotrasmettitore rilasciato dal nostro sistema nervoso quando abbiamo un orgasmo. Eppure, quando finalmente riusciamo a chiudere l’applicazione, ci sembra di tornare da Narnia: siamo stati disconnessi dalla realtà, da ciò che stavamo facendo prima e dai pensieri sulle cose da fare e ora vi facciamo ritorno. L’esperienza di ripresa della vita vera denota quindi il potere distraente dello scrolling.
Distrazione e divertimento sono quasi sinonimi, etimologicamente. Due facce della stessa medaglia. “Divertimento” viene dal francese divertissement, da de-verto, ossia distogliere l’attenzione, orientarla ad altro. Fu Pascal il primo a riconoscere il bisogno umano di divertirsi, ossia distrarsi. Pascal, con un piglio che potremmo definire proto-esistenzialista, osservava che le persone, lasciate sole a pensare, tendono ad essere infelici. La via maestra per la felicità è la distrazione, poiché è solo nei momenti di spensieratezza che la nostra mente vola leggera sopra problemi e dolori della vita, non badandoci. Per questo, scriveva Pascal, “senza distrazioni non c’è gioia”.
Se distrarsi è un bisogno umano autentico, tuttavia pare che oggi la nostra società ci istighi a farlo compulsivamente. C’è un imperativo sociale a godere, secondo la cosiddetta “teoria critica”, tale per cui tendiamo a riempire ogni momento vuoto con qualcosa che ci intrattenga: scrolling, serie tv, giochi per smartphone. Dalle nuove frontiere tecnologiche e mediatiche scaturiscono anche nuove forme d’ansia, come ad esempio la FOMO (Fear Of Missing Out), la paura di essere tagliati fuori che sorge proprio dalla possibilità, offerta dai social media, di essere in teoria sempre connessi alle altre persone.

Due assunti da esplicitare
Se intuitivamente ci rendiamo conto che il nostro consumo di certi media non è sano, tuttavia ci risulta difficile mettere a fuoco cosa non quadri. Le nostre intuizioni sono guidate da assunti non esplicitati che dobbiamo affrontare per fare chiarezza sul fulcro della questione. I due assunti sono: un pregiudizio classista di eredità moralista, e un altro di tipo produttivista che ci viene dall’ideologia capitalista.
Ci sembra intuitivamente meglio leggere un libro o guardare un film d’autore piuttosto che sfogliare riviste di gossip, guardare “programmi spazzatura” o giocare ai videogiochi. Questo è il pregiudizio classista, che deriva dalla classificazione, operata dal pensiero occidentale, del divertimento secondo criteri morali.
Tutto è iniziato con il moralismo di epoca greco-romana che considerava i piaceri della carne inferiori alle attività che richiedono l’uso dell’intelletto (vedi Epicuro). In epoca vittoriana, questa idea dell’elevazione intellettuale e della raffinatezza del gusto è stata ripresa in un progetto di “ricreazione razionale”, che distingueva i divertimenti “alti” delle classi superiori dalle forme di intrattenimento popolari, considerate più rozze. Questo ci ha lasciato in eredità l’idea che ci siano piaceri alti e piaceri bassi, rappresentativi del prestigio di classe.
La teoria critica – un filone di pensiero che rielabora la psicoanalisi in chiave anticapitalista – smaschera il classismo intrinseco a questa ostracizzazione delle forme “basse” (o pop) di piacere, e rivela il ruolo che l’ideologia capitalista ha oggi nel plasmare le nostre gerarchie morali secondo criteri di utilità capitalisti. Tony Bown, in “Capitalismo e Candy Crush”, si sforza di dimostrare che non c’è niente di intrinsecamente migliore nel guardare una lezione di filosofia su YouTube rispetto a giocare a Candy Crush per tre ore, perché “nessuna forma di godimento è neutrale”, dato che tutta la nostra capacità di godere è socialmente costruita. Secondo la teoria critica, noi interiorizziamo i criteri morali che pervadono l’ideologia dominante, nella forma di un Giudice interiore (il Super Io) che giudica quali piaceri sono leciti, in base agli standard sociali, e quali distrazioni dovremmo invece evitare. L’ideologia capitalista, in particolare, imprime nelle nostre menti l’idea che abbia valore solo ciò che è utile o produttivo. Per questo ci sentiamo in colpa a cincischiare su tiktok: perché la vediamo come una perdita di tempo. Invece, se ci sentiamo in pace con noi stessi uscendo dalla prima di una pièce teatrale avanguardista, è perché almeno ci sembra di “aver fatto qualcosa”, essendoci “elevati”.
Alcune forme di intrattenimento ci appaiono dunque intuitivamente “meglio” perchè soddisfano allo stesso tempo il “bisogno” (indotto) di fare qualcosa di utile e il bisogno di definire la nostra soggettività e la nostra appartenenza al gruppo degli anticonformisti, intellettuali e radicali – la nuova classe socio-culturale che possiamo definire “radical chic”.
Alla luce di ciò, appare chiaro che se anche i social media o i giochi per smartphone sono distrazioni improduttive, ciò non li rende sbagliati, perchè il nostro sdegno nei loro confronti deriva dall’aver interiorizzato un bisogno fasullo di sfruttare ogni momento per fare qualcosa di utile. Parimenti, non vanno delegittimati in quanto “piaceri bassi”, perché non dobbiamo dedicare ogni secondo ad acculturarci o elevarci – e inoltre ques’ultimo resta un privilegio non accessibile a gran parte delle persone occupate a guadagnarsi il pane.
Ma anche tolte di mezzo queste due obiezioni, restano comunque buoni motivi per preoccuparsi del potere distraente di social media, giochi per smartphone e serie tv. Dal punto di vista dell’esperienza in prima persona, il problema non è il cosa: il problema è il come.

Addictive features
Sempre più prodotti mediatici pop sono costruiti per essere consumati compulsivamente. Al di là della loro (talvolta) scarsa qualità artistica, il problema è che creano dipendenza: colonizzano la nostra attenzione, saturano i nostri circuiti dopaminergici, si offrono come facili surrogati dell’esperienza sana del piacere. In una società già di per sé alienante, che costringe a ritmi disumani, isola le persone, le allontana da sé stesse, veniamo predati da un’economia dell’attenzione che rende ancora più difficile concentrarci su ciò che davvero conta.
Jenny Odell, in “How to do nothing”, denuncia con precisione di dettagli i danni causati dalle aziende che fanno profitti catturando la nostra attenzione con mezzi sempre più sofisticati, dirottando i nostri desideri naturali, come il bisogno di comunità, verso falsi target. “Il cattivo non è Internet, e nemmeno l’idea di social media; è la logica commerciale dei social media e l’incentivo finanziario a mantenerci in un redditizio stato di ansia, invidia e distrazione.”
Il problema è che il cellulare offre un pacchetto completo di facili e immediati appagamenti che svolgono fin troppo bene il compito di distrarci da noi stessi. Saturando il nostro tempo libero di stimoli, viene meno l’occasione di “non fare nulla”, che è la condizione di vuoto necessaria alla contemplazione, all’ascolto, all’elaborazione delle emozioni e alla riconnessione con la natura e il cosmo. Non ci sono piaceri di per sé alti o bassi, ognuno ha la libertà di godere come vuole. Ma c’è una differenza nel modo in cui godiamo: a volte ricerchiamo le distrazioni compulsivamente, come dei drogati, anelando impazienti a un appagamento chimico.
Se ci fermiamo a riflettere, possiamo rendercene conto tutti quanti. Nella nostra esperienza, potrebbe essere capitato di mangiare per nervosismo, per “colmare un vuoto”, e sentiamo che è diverso dal mangiare di gusto, assaporando il cibo, godendo del momento. Lo stesso discorso si può fare per tutto ciò che ci dà piacere: il sesso, le relazioni umane, la realizzazione professionale, etc…
Il punto cruciale dunque, non è se scrollare Instagram un’ora sia un peccato o meno, ma se la facilissima reperibilità di queste forme di distrazione, unitamente all’alienazione a cui siamo condannati dalla società contemporanea, esasperi o meno la nostra predisposizione a cadere in dinamiche di dipendenza, di ricerca morbosa dell’appagamento più facile e immediato. In sostanza, la domanda è: nella società utopica perfetta, nel giardino dell’eden in cui le persone non sono alienate, avrei il bisogno di guardare un reel di Antonino che prepara un panino alla cipolla alle due di notte per non sentire le mie emozioni?
Immagine di copertina: Illustrazione di @orsa.art