

Ogni qualvolta si pensa ad uno sport, le prime persone che vengono in mente sono le icone dello sport in questione. Nel caso del tennis, chiaramente Federer, Nadal, Djokovic o qui in Italia Berrettini, dati i successi ottenuti negli ultimi tre anni. Oltre a queste icone c’è però un mondo che non vive sotto le luci della ribalta: si sposta infatti tutto l’anno, molto spesso da solo, faticando per far quadrare i conti alla fine del mese e mantenere la famiglia. Un mondo fatto di ragazzi bravi a giocare a tennis, con un talento sopra la media, che però o non basta ancora o non basta più per rimanere al top. Questa è la storia del tennista ignoto.
Parallelismi
Per iniziare a raccontare questa storia, spero possiate perdonarmi due istantanee della mia settimana: lunedì scorso a pranzo ho acceso la tv su Supertennis (sempre sia lodato) mentre trasmettevano in diretta da Pune, India un match tra Kovalik e Bhambri, idolo di casa. Ad assistere all’incontro sugli spalti forse cinque persone ad essere generosi. Il giorno dopo invece Matteo Berrettini si è conquistato il palco nella prima serata di Sanremo, davanti a dodici milioni di spettatori. Due universi distanti, ma strettamente interconnessi: è chiaro infatti come la definizione di campione nasca dal fatto di prevalere su qualcun altro che campione non è. I big dello sport esistono perché esistono i meno big, e non è un caso che ci sia solo un torneo a fine anno in cui giocano i primi otto giocatori come punti ottenuti durante l’anno. La Superlega non affascina nessuno.

I conti della serva
Aggiungere altre parole al profluvio di articoli celebrativi verso i grandi campioni sarebbe esercizio ridondante ed inutile: cos’altro si può dire per raccontare la grandezza di un Nadal o di un Federer? Probabilmente niente. È giunto quindi il momento di concedere un po’ di visibilità anche ai meno big, e alle loro storie più prosaiche; la maggior parte degli aspiranti “grandi” di tennis a malapena ci vive, e anzi deve fare sacrifici immani per far quadrare i conti. Innanzitutto però è necessaria una premessa: i primi cento tennisti al mondo riescono a vivere piuttosto dignitosamente. Solo infatti con i primi turni nei quattro tornei principali dell’anno (a cui i primi cento giocatori sono ammessi di diritto) si accumulano all’incirca sui 250.000 euro. Con un sorteggio non improbo questo montepremi può pure aumentare.
Per gli altri, salvo eccezioni, non resta che organizzare al meglio viaggi, alloggio e spese di lavoro, sperando di andare avanti il più possibile nei tornei. In occasione di questi il tennista è costretto a prenotare voli a date flessibili, perché quando arriva in un posto per giocare non sa quando tornerà a casa. L’alternativa è prenotare a data fissa, ma spendendo di più per l’alloggio. Inoltre il giocatore, viaggiando con il suo coach, dovrà spendere anche per la trasferta dell’allenatore. Non devono poi mancare i costi per il vitto, l’incordatura delle racchette (Federer ha speso nel 2019 circa $40.000, un tennista medio viaggia sui $5000 l’anno) e nel caso di ragazzi talentuosi anche l’accademia dove migliorare il proprio gioco: per quelle più prestigiose, almeno in Italia, si parla di non meno di $25.000 l’anno, vitto ed alloggio esclusi. Un ulteriore esempio chiarirà al meglio le difficoltà del protagonista del pezzo: in un torneo da $10.000 dollari di montepremi al vincitore ne spettano circa 1300.
Tirando le somme, a fronte di entrate incerte, quante sono le spese? Una stima parla tra 50.000 e 70.000 euro l’anno. Ne consegue che con i costi sopracitati solo la vittoria o almeno la finale riescano ad attutire i sacrifici fatti: in caso di eliminazione al primo turno, il bilancio sarà pesantemente in rosso.
Depressione
Seguendo lo stesso principio cardine, non racconterò della depressione di Naomi Osaka o di Andre Agassi. La serie tv sulla campionessa americana e la biografia “Open” scritta dallo stesso campione a stelle e strisce lo fanno infatti molto meglio di me.
Ci sono invece altre storie di vita tennistica molto più vicine al “popolo “, che è giusto raccontare: ad esempio quella di Gianluigi Quinzi, vincitore al torneo juniores di Wimbledon 2013, e ora ritirato all’età di venticinque anni, vinto dalla pressione di dover emergere a tutti i costi e dai tanti infortuni che hanno contraddistinto la sua carriera. Le sue dichiarazioni alla Nuova Sardegna in tal senso fanno riflettere: «Entrare in campo era diventato un dovere, una sofferenza. Non c’erano più passione e divertimento. Nel momento in cui mi sono reso conto di non riuscire a entrare nei primi 100 ho detto a me stesso che dovevo riflettere e capire che cosa fare. Avevo troppe aspettative, non riuscivo a gestire l’ansia, non riuscivo a resettare e ricominciare con entusiasmo». La storia di Quinzi non è dissimile da quella di tanti universitari, impegnati in tutt’altra carriera, ma ugualmente in bilico tra sacrifici, volontà di non deludere le aspettative e con la possibilità del fallimento sempre all’orizzonte. Il tennis come metafora di vita.

Epilogo
Il fallimento, o comunque la sconfitta, non sono quasi mai “spendibili” per il grande pubblico, abituato al lieto fine: la sconfitta è infatti contemplata solo come tappa intermedia del viaggio verso la gloria. Il tennista ignoto, alla stregua del milite ignoto, nasce dalla volontà di rendere omaggio a chi, giorno per giorno, ha garantito o garantisce la sopravvivenza stessa del mondo dello sport, creando campioni in un modo similare al milite ignoto, che ha reso celebri con il suo sacrificio i generali ricordati con vie piazze e decorazioni.
Il fascino del perdente, se si può definire tale il centocinquantesimo tennista al mondo, è il più reale, perché scevro da retorica ed enfasi e vicino alla vita che ciascuno di noi conduce: solo uno su mille ce la fa. Agli altri novecentonovantanove non resta che esserne consapevoli.
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