Altre Americhe. Con gli occhi di Sebastião Salgado

Un viaggio in compagnia del fotografo Sebastião Salgado alla riscoperta della misteriosa ed affascinante America Latina e delle proprie radici. La fotografia come mezzo per raccontare vite.

È il 1977 quando un giovane fotografo brasiliano di 33 anni dalla folta barba rossa, imbracciando la sua macchina fotografica Leica, decide di mettersi in viaggio per visitare i suggestivi luoghi dell’America Latina e, in particolare, del Brasile. È Sebastião Salgado che, dopo anni trascorsi come fotoreporter tra Europa ed Africa, ora sogna di tornare in quelle terre, alla riscoperta del suo amato Brasile che era stato costretto ad abbandonare a causa dell’esilio determinato dalla dittatura militare degli anni ‘70. È la storia di un viaggio personale, intimo e di riscoperta, attraverso cui Salgado porta alla luce il racconto di popolazioni indigene custodite dalle alte montagne del Perù e del Cile, dei villaggi senza tempo dell’Ecuador e delle realtà rurali e contadine della regione Nordest del Brasile. Un cammino che durerà sette anni e da cui, nel 1986, nascerà il primo, grande progetto fotografico dal titolo: Autres Amériques.

Immaginando di affiancarci a lui in questo suo cammino, ora circondati dagli immensi monti della Sierra Madre, ora dagli avvolgenti e brillanti colori dei bastioni dell’Altopiano, inizieremo a comprendere l’intima importanza di questo “ritorno”. Perché, appunto, quello di Salgado è un ritorno, inscrivibile a quei nostoi – parola greca che significa “ritorni” – antichi di cui si scriveva nei poemi epici, che lo riporta al ventre della sua terra. Una terra, questa, a lui sconosciuta, celata, come un subconscio tutto da sviscerare: «le Americhe latine così misteriose, sofferenti, eroiche e piene di nobiltà». Ma è solo quando Salgado incontra un volto, uno sguardo, che la sua fotografia si anima. Le fotografie di Salgado sono, per definizione, fotografie umaniste, in quanto la vicinanza con il soggetto e il coinvolgimento emotivo che ne deriva permettono di andare oltre il semplice guardare e di vedere, nel vero senso della parola – come ci insegna, a sua volta, il fotografo Ferdinando Scianna.

Ecuador, 1982, Autres Amériques, © Sebastião Salgado.

L’utilizzo del bianco e del nero, che Salgado predilige per i suoi scatti, è una tecnica che si rivela particolarmente funzionale alla fotografia umanista, in quanto risalta il contrasto dell’immagine garantendone la giusta potenza estetica e intensificando ombre e luci che fanno emergere ancora di più, concretizzandolo, il soggetto. «La forza di un ritratto, dice Salgado, esiste in quella frazione di secondo in cui si coglie un po’ della vita della persona che si fotografa, poiché è la persona che ti offre la foto». Un’ offerta, dunque, un dono silenzioso, ma carico di pathos visivo che il fotografo accoglie a piene mani. E Salgado di questi doni ne fa tesoro regalandoci, a sua volta, scatti che manifestano tutta l’intensità di un momento e, spesso, anche di una vita.
Di questo “racconto” fotografico, sono i seguenti due scatti che ritengo meritino di venir indagati, non solo per la loro impeccabile composizione artistica che, per le foto scelte all’interno del libro, è risaltata dalla ricercata impaginazione – di cui si è occupata la stessa moglie di Salgado Lèila Wanick, sua compagna di vita e curatrice dei suoi lavori fotografici – ma, in particolare, per la loro carica simbolica e per quello che hanno da raccontare.

Ecuador, 1982, Autres Amériques, © Sebastião Salgado.

La prima fotografia: Salgado ci accompagna in Ecuador e, precisamente, all’interno della comunità indigena dei Saraguro. Un popolo molto credente e contadino che vive ad elevate altitudini, quasi in un’altra dimensione, sia spaziale che temporale. Qui Salgado fa amicizia con un contadino di nome Guadalupe con cui era solito passeggiare per i sentieri delle alte montagne. Secondo una leggenda dei Saraguro, gli dèi, sotto l’aspetto di Cristo, venivano sulla terra per osservare gli uomini e scegliere chi meritava il cielo e chi no. Guadalupe era convinto che Sebastião fosse un emissario di Dio e, durante le loro passeggiate, gli raccontava della sua vita con la speranza di essere tenuto in considerazione nel regno dei cieli. Il modo di vivere lento e ben scandito di questo popolo incantava a dir poco Salgado che, nel raccontare di questo periodo passato insieme ai Saraguro, sostiene «di non aver mai incontrato un popolo che avesse lo stesso ritmo del tempo». Le loro espressioni, catturate dalla macchina fotografica, sono segnate da un’impressione di fatalismo che ne accentua la profondità e la nobiltà del loro vivere.

Brasil, 1980, Autres Amériques, © Sebastião Salgado

Seconda fotografia: ci troviamo nella regione Nordest del Brasile e qui Salgado ritrae le realtà contadine e la grande precarietà della vita che si basa su di un’agricoltura povera ed aggravata dalla dilagante siccità. La mortalità infantile in queste terre è altissima. Le fotografie di Salgado sembrano farci toccare con mano questa quotidianità, ponendoci a una vicinanza vertiginosa con essa. A testimoniare questo dato della mortalità è la frequenza con cui si trovano servizi di affitto bare in ogni luogo e a buon mercato, dalle chiese ai piccoli negozi dove, tra gelati, banane, scarpe si trovano bare appese alle pareti. Una bara, qui, può essere utilizzata anche più di una volta all’interno della stessa famiglia. Nel Nordest del Brasile, Salgado vive la morte: in questo mondo a parte, vita e morte sono vicine.
All’interno, dunque, di questo progetto, considerato tra i più intimi ed emblematici della carriera del fotografo brasiliano, la visione del mondo che si manifesta attraverso l’obiettivo della macchina si trova sempre in perfetta armonia con la visione interiore di Salgado. L’umana complicità del fotografo con i suoi soggetti e la dinamicità delle sue inquadrature permettono di includere le vite di questi esseri umani all’interno di un complesso «affresco universale», come suggerisce il fotografo e editore Claude Nori all’interno della prefazione del libro Autres Amériques.
Salgado non smetterà mai di dedicarsi al suo paese, nemmeno dopo gli anni più intensi in cui affiancò il lavoro di Medici Senza Frontiere in Africa che lo portarono a vivere realtà ai confini dell’umana comprensione fatte di guerre, fame, morte e miseria. Da questa esperienza Salgado torna in Brasile profondamente ammalato e cambiato, ma trova consolazione e cura al rientro nella città natale di Aimorès, nel 1998. Di fronte allo scenario di degrado ambientale in cui si trovava l’antico allevamento di bestiame acquisito dalla famiglia di Salgado, Sebastião e sua moglie Lèlia immaginarono come poter restituire alla natura ciò che decenni di degrado ambientale avevano distrutto, dando vita, così, ad un nuovo grande progetto: la creazione dell’Instituto Terra.

Fotografie e logo di Instituto Terra, il prima e dopo la riforestazione.

Si tratta di un’organizzazione civile senza scopo di lucro fondata nell’aprile 1998. Essa si occupa di ripristinare l’area della Vale do Rio Doce, dove Sebastião crebbe. Qui le conseguenze della deforestazione e dell’uso sconsiderato delle risorse naturali – tra cui l’erosione del suolo e la scarsità d’acqua – hanno contribuito alla scomparsa della folta foresta pluviale della Mata Atlântica. Il primo passo è stato, dunque, quello di trasformare l’area in una Riserva Naturale Privata. Si tratta del primo riconoscimento ambientale concesso in Brasile a una proprietà completamente degradata, con l’impegno di essere riforestata.

 Grazie all’impegno e alla volontà di Sebastião e di Lèlia e alle attività dell’Instituto Terra, migliaia di ettari di aree degradate e quasi 2.000 sorgenti sono in fase di recupero. Il vecchio allevamento di bestiame che aveva contribuito all’eccessivo sfruttamento del terreno, ora ospita nuovamente la foresta con l’ecosistema floro-faunistico della Mata Atlântica.

Immagine di copertina: Mexico, 1980, Autres Amériques, © Sebastião Salgado.

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