Manifestanti in strada con bandiere.

“Chi fa da sé fa per tre?” Lo strano caso del Somaliland (parte 2)

Il detto suggerisce che ad arrangiarsi senza l’aiuto altrui si faccia meglio. Possiamo applicare questa massima agli stati? Il Somaliland ci può insegnare qualcosa a riguardo.

Più di un mistero

Lo “strano caso della Repubblica del Somaliland” è interessante per più di un motivo. Proclamatasi indipendente nel lontano 1991, questa regione ha ormai consolidato un proprio governo a tutti gli effetti indipendente da quello del suo paese madre, la Somalia. L’ultimo articolo di questa rubrica ha cercato di delineare la storia di questa curiosa regione, e di spiegare come sia possibile che – nonostante la sua indipendenza di fatto – il Somaliland rimanga formalmente non riconosciuto da nessuno stato al mondo. Quello che resta da spiegare, però, è come sia possibile che questa piccola regione, non riconosciuta e di conseguenza non supportata dalla comunità internazionale, sia riuscita a diventare più stabile e democratica della sua ex-madrepatria, la Somalia appunto, che ha invece ricevuto tante attenzioni – e tantissimi soldi – dagli stati più ricchi e potenti del mondo.

Traiettorie divergenti

A voler trovare un punto preciso in cui le traiettorie della Somalia e del Somaliland si dividono, bisogna tornare a inizio 1991, quando il dittatore Siyad Barre viene deposto (per dirla con un eufemismo) e l’intero apparato statale collassa. La Somalia discende nel caos, con una miriade di gruppi armati in competizione per accumulare soldi e potere. La comunità internazionale si attiva per ristabilire la calma: tra il 1991 e il 2007, vari stati ospitano e finanziano ben otto conferenze di pace, invitando rappresentanti dei vari gruppi armati al dialogo. Mentre sulla carta questi sforzi ottengono qualche successo (un accordo di pace e la formazione di un governo di transizione), nella realtà dei fatti l’impatto è minimo. Nonostante il continuo supporto internazionale, ad oggi il successore di questo governo di transizione controlla a malapena la capitale Mogadiscio. Nel paese regna l’insicurezza, e le élite economiche somale controllano per larga parte la scena politica del paese. Per riassumere la questione, la Somalia è stata definita da alcuni ricercatori uno “stato fallito disfunzionale” – in parole povere, uno stato dove il governo non è solo debole, ma pure inefficiente e potenzialmente dannoso.

Delegati somali seduti in stanza piena.
La conferenza di pace di Arta, in Gibuti (2000), dove viene creato il Governo di Transizione Nazionale.
Credits: IRIN

La storia del Somaliland, invece, prende una traiettoria abbastanza diversa dopo il sopradetto collasso dello stato somalo nel 1991. Certo, anche qui i problemi non mancano. Soprattutto nella prima metà degli anni ‘90, infatti, vari gruppi armati si combattono a vicenda per assicurasi il controllo di risorse e territori strategici. Col tempo, però, la gran parte di questi gruppi armati riescono a trovare degli accordi pacifici. In 5 anni vengono organizzate ben 33 assemblee di capi dei vari clan, tutte finanziate con fondi di uomini d’affari locali. Queste negoziazioni portano alla formazione di uno stato relativamente funzionale:  nonostante lo stato rimanga debole, largamente controllato da interessi economici e da dinamiche di clan, le autorità riescono perlomeno a garantire un minimo di sicurezza per i cittadini, e il governo è eletto tramite elezioni in cui tutti i cittadini possono partecipare (al contrario della Somalia, dove i politici vengono eletti dai capi dei clan locali).

Più di una spiegazione

Come si spiega questa differenza? Come per tutti i problemi complessi, la spiegazione è altrettanto complessa. Più che ad una singola motivazione, il successo del Somaliland può essere ricondotto a diversi fattori. Quattro di questi fattori sono considerati particolarmente importanti.

L’eredità del colonialismo. Come descritto dall’articolo precedente, durante il colonialismo il Somaliland e la Somalia erano controllati da diversi colonizzatori: il Regno Unito per il primo, l’Italia per la seconda. In Somaliland, il Regno Unito non aveva grandi interessi, se non quello di esportare carne per l’esercito britannico di stanza nel vicino Yemen, e di assicurare che i francesi non controllassero quell’area. A condizione che queste richieste fossero rispettate, i britannici lasciavano i capi-clan del Somaliland relativamente liberi di gestire le dinamiche politiche locali. Questa decisione, dicono alcuni storici, avrebbe consentito alle autorità locali del Somaliland di mantenere più legittimità e potere, favorendoli nel trovare un accordo di pace dopo il 1991. I coloni italiani in Somalia, per contro, avevano adottato un approccio completamente diverso, demolendo le forme di organizzazione politica locale per consolidare il controllo italiano. Dopo la fine del colonialismo, quindi, le istituzioni politiche somale non avevano più la forza e la legittimità necessarie per negoziare accordi di pace sostenibili.

Una diversa composizione di clan. Sia in Somalia che in Somaliland, l’affiliazione a diversi clan è tradizionalmente molto importante nel determinare le dinamiche politiche. Nonostante ospiti diversi clan somali, il Somaliland ha un “nucleo etnico ragionevolmente solido”, con circa il 70% della popolazione appartenente al clan degli Isaaq. Secondo alcuni storici, questa caratteristica avrebbe aiutato il Somaliland a limitare conflitti tra clan e a raggiungere degli accordi di pace locali. In Somalia, per contro, il panorama dei clan è molto più frammentato – rendendo quindi più difficili i negoziati tra i vari gruppi armati affiliati a diversi clan.

Mappa dei vari clan somali nel Corno d’Africa.
Distribuzione dei vari clan di maggioranza nei territori somali.
Credits: Università del Texas, Austin.

L’eredità della lotta di resistenza. Un altro fattore importante è rappresentato dall’esperienza della popolazione del Somaliland durante la lotta di resistenza contro il regime di Siyad Barre. Durante gli anni ‘80, il dittatore somalo basato a Mogadishu, nel sud della Somalia, aveva cercato di mantenere il controllo sul ribelle Somaliland usando il pugno di ferro. Secondo alcuni storici, però, questa strategia non avrebbe fatto altro che aumentare la volontà dei cittadini del Somaliland di separarsi dalla Somalia, sempre più percepita come un oppressore invece che come parte dello stesso paese. Al collasso dello stato somalo nel 1991, il Somaliland avrebbe quindi visto una perfetta opportunità per guadagnarsi la propria indipendenza.

Un processo di pace domestico. L’ultimo fattore è legato alle dinamiche che hanno caratterizzato i processi di pace nei due paesi. In Somalia, la tendenza della comunità internazionale a riversare larghe quantità di soldi e aiuti umanitari al governo di transizione ha creato degli incentivi poco desiderabili. Visto che controllare il governo centrale significa controllare tutti gli aiuti internazionali, nel sistema politico somalo vige la regola del “chi vince piglia tutto” – una regola che non incoraggia i vari attori a negoziare pacificamente. Inoltre, l’enorme influsso di aiuti internazionali ha fatto sì che il governo somalo sia ormai tenuto a rispondere più ai suoi benefattori stranieri che ai suoi cittadini. In Somaliland, per contro, in assenza di questi aiuti internazionali, i vari attori politici locali si sarebbero trovati incentivati a rendere conto ai propri cittadini, e a trovare un compromesso invece di cercare di prevaricare sugli avversari.

Discussione animata tra delegati somali.
Discussioni durante una delle conferenze di pace a Borama, Somaliland (1993).
Credits: Somaliland Standard.

Cosa ci insegna il Somaliland?

L’insieme di questi quattro fattori può forse spiegare come il Somaliland abbia potuto ottenere migliori risultati della sua (ex-)madrepatria, pur in assenza di aiuti internazionali. Per noi che osserviamo questi eventi dall’Italia, la storia del Somaliland ci può insegnare un paio di cose interessanti. Prima di tutto, ci può far riflettere su alcune delle conseguenze del nostro triste passato coloniale. In secondo luogo, per rimanere più concentrati sull’attualità, ci può far riflettere su come gli aiuti internazionali – per quanto ben intenzionati – possano alle volte generare effetti problematici. Questo non vuol dire che ogni forma di aiuto sia da rigettare. Un po’ di attenzione in più in come questo aiuto si concretizza, però, sarebbe cosa buona e giusta.

Nota: Le opinioni espresse nell’articolo sono solamente quelle dell’autore, e non riflettono necessariamente quelle di Echo Raffiche o di istituzioni a cui l’autore è affiliato.

Immagine di copertina: Manifestazioni in Somalia (sinistra) e in Somaliland (destra). 
Credits: Voice of America

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