
Ormai più di un mese fa, durante il Salone del Libro a Torino, è esplosa una delle tante polemichette nostrane che alcuni di voi sicuramente avranno seguito. La scrittrice Susanna Tamaro, mentre parlava di scuola insegnamento e letteratura, si è lasciata sfuggire un’uscita infelice su Giovanni Verga («brutto e difficile»), ritenuto un autore inadatto ad appassionare i giovani alla lettura, persino odiato.
Come prevedibile, rapidissima è arrivata la levata di scudi da più parti: giornalisti, intellettuali e utenti social si sono scagliati contro Tamaro, rea di aver offeso la grande tradizione letteraria italiana (Verga appariva infatti come puro nomen, sineddoche che potrebbe tranquillamente comprendere al suo interno Manzoni, D’Annunzio o Svevo)! Ma colpevole soprattutto di averlo fatto senza possederne i titoli – ha detto giustamente Matteo Marchesini in un suo editoriale: cosa sarebbe accaduto se un’affermazione del genere l’avessero detta autori più in vista come Nicola Lagioia o Chiara Valerio?
A due settimane dagli attacchi, Tamaro ha dovuto fare marcia indietro, prima con un articolo sul Corriere, poi, con un post su Facebook dove dice di essere stata in parte fraintesa, e in cui sfoggia una bella foto mentre sta leggendo Storia di una capinera, un po’ come se dovesse farsi perdonare.
Una piccola premessa: ammetto la mia ignoranza rispetto alla produzione letteraria di Susanna Tamaro, che non ho mai avuto modo di leggere, ma da insegnante – a cui Verga peraltro piace, e andrebbe forse ribadito più spesso che non tutti i classici devono piacere – credo che la tesi di Tamaro sia tutt’altro che da buttare.
È sempre divertente osservare come in Italia, quando c’è da salvare l’apparenza, si dia sempre il meglio di sé. Poco importa se l’Italia è uno dei paesi che legge meno in Europa (dati Eurostat del 2018) e dove i lettori diminuiscono di anno in anno – e di questo la scuola non può non avere delle responsabilità -, quando si tocca la tradizione – sarebbe meglio dire l’abitudine – non c’è scusa che tenga: siam pronti alla morte.

Tra gli interventi più appassionati in difesa dell’autore siciliano – che in effetti, da morto, ha avuto qualche difficoltà a difendersi – c’è anche quello della Fondazione Verga. Il presidente e il vicepresidente del consiglio scientifico della Fondazione, tra le altre cose, hanno affermato nella loro lettera gonfia di retorica che «le letture amene, come il libro più famoso della signora Tamaro, possono far evadere dalla cruda realtà, ma non forniscono ai ragazzi quella sensazione di rispecchiamento che gli psicologi additano come passaggio fondamentale per la crescita dell’io». Affermazione tanto generica quanto discutibile: siamo davvero sicuri che solo i grandi classici possano svolgere questa funzione di rispecchiamento? Mi pare che ciò possa valere per tanti libri, indipendentemente dal periodo in cui sono stati scritti e indipendentemente dalla loro presenza o meno nel canone.
Dirò una banalità: io a scuola non ho apprezzato né Parini né Alfieri, e quando mi hanno assegnato Il Gattopardo da leggere l’ho abbandonato alla quindicesima pagina. In quegli stessi anni mi appassionavo però a Lovecraft, Tolkien e Murakami, che forse tanto e più dei classici hanno contribuito alla mia decisione di iscrivermi a Lettere e diventare insegnante. Col tempo il mio giudizio su alcuni autori letti durante l’adolescenza è cambiato, ma ancora oggi non sono certo che i classici (cosiddetti, perché anche Tolkien e Lovecraft sono classici, seppur non scolasticamente intesi), da soli, sarebbero bastati a farmi amare la letteratura. E cosa ancora più importante, per quale motivo le letture «amene» avrebbero come unico pregio quello dell’escapismo?
Credo – però – che, al di là delle diverse opinioni, la vicenda sia stata l’ennesima occasione sprecata in cui si sarebbe potuto discutere dell’insegnamento della letteratura a scuola. È facile ribadire che Verga è importante e che i ragazzi possono imparare molto leggendolo, più complesso ricordare il modo in cui il contatto tra gli studenti e Verga (o qualsiasi altro classico) avviene.
Mi pare infatti che il dibattito sulla letteratura – e sulla scuola in generale – si muova molto spesso su binari ideali, che non tengono quasi mai conto dell’effettiva realtà e dei suoi risvolti pratici. Proviamo a riassumerla così: a scuola, e più precisamente nel triennio, si ha la pretesa di studiare l’intera letteratura italiana dalle origini fino al primo Novecento, o – per lo meno – i maggiori autori che hanno operato in questo arco di tempo.
E qua sorge il primo problema: nella stragrande maggioranza dei casi, questi autori vengono affrontati in maniera strettamente manualistica. È evidente: a scuola non c’è tempo per leggere il Canzoniere, L’Orlando Furioso, Il Principe, Il Giorno, I Malavoglia o La Coscienza di Zeno. Non c’è dunque modo di affrontare in classe, in modo analitico, i testi che si vorrebbero insegnare agli studenti. Lo si può fare con le singole poesie, che nello spazio di un’ora si possono leggere e commentare con la dovuta cura, e infatti non è un caso che nella scuola italiana si faccia molta, troppa poesia. Ciò che si fa invece con grandi opere come quelle citate è raccontarle, dire cose sul testo senza necessariamente affrontarlo – o in certi casi, diciamolo senza pudore, senza che il docente abbia realmente letto quell’opera: pagine e pagine di spiegazione sul perché l’Orlando Furioso sia un’opera fondamentale e quali siano le sue principali tematiche. Poi però – se va bene – si leggono in classe una trentina di ottave selezionate dall’antologia e chi s’è visto s’è visto. Qual è l’utilità di sapere – cito da un manuale – che nel Furioso l’ironia di Ariosto «è energia luminosa dell’intelligenza che serve a comprendere le diversità, è distaccata saggezza contemplativa che armonizza le dicotomie e le contrapposizioni» se poi non si legge e non si capisce come viene espressa, nella pratica e nel testo, questa ironia?

Lo stesso discorso vale per Verga: in classe non c’è tempo di studiare con cura un romanzo di media lunghezza come I Malavoglia. Il massimo che si può fare è spiegare la filosofia di Verga, la metafora della marea del progresso e di come i vinti ne siano travolti. Poi, però, si assegna la lettura a casa, e si spera che lo studente legga con attenzione e capisca il contenuto del testo.
E qui arriviamo al secondo problema: oggi i ragazzi, anche nel triennio di un liceo, faticano a volte a comprendere con precisione un testo scritto in italiano standard, commettono ancora gravi errori di ortografia e lessico, a stento riescono a scrivere dei temi argomentativi in cui esprimono le loro idee. E ci si aspetta che, seppur con la guida dell’insegnante, comprendano a fondo un testo complesso, scritto oltre cent’anni fa in una lingua non sempre facile.
Avete mai provato a chiedere ad un vostro amico, ex liceale e laureato, di collocare nel tempo uno dei classici affrontati a scuola? O di collegare il titolo di un’opera al suo autore? Vi posso assicurare che le risposte potrebbero sorprendervi. E questo non perché le persone interrogate fossero stupide o incolte – tutt’altro – ma perché lo studio nozionistico e manualistico della letteratura non permette di creare quel legame col testo che può rendercelo memorabile.
Non dimentichiamo poi che i liceali sono solo la metà degli studenti italiani, e che nei tecnici e nei professionali – la scuola italiana è ancora tristemente classista – le difficoltà qui sopra elencate spesso aumentano.
Quale sarebbe la soluzione? Difficile dirlo, perché è difficile immaginare un paradigma diverso da quello con cui io e tutti gli altri insegnanti italiani siamo stati istruiti e cresciuti: quello storicista. Susanna Tamaro ha provato a condividere la sua proposta, a mio parere valida soprattutto in quei tecnici e professionali dove il rapporto con la letteratura è – per usare un eufemismo – freddino: più letture contemporanee che avvicinino i giovani alla lettura, anche a scapito di quei classici che parrebbero intoccabili. Chi scrive è invece convinto che forse avrebbe più senso affrontare meno autori ma affrontarli meglio – ad esempio selezionando per ogni sezione del triennio una rosa ridotta di classici, da leggere e studiare. E pazienza se altri autori verranno lasciati da parte. Ma che la mia idea sia buona o meno, sarebbe quanto meno utile discuterne. Precisamente ciò che in Italia, anche quando scoppiano queste polemiche, non si fa.
Immagine di copertina: Illustrazione di Noemi Quintieri.