I pugni in tasca. Un ritratto sanguinario della disfunzione familiare

Il debutto per un regista è una questione impegnativa e carica di responsabilità, che può dare il via alla sua carriera e diventare il suo biglietto da visita. Oggi, vogliamo ricordare uno dei debutti più sorprendenti nella storia del cinema.

I pugni in tasca (1965) è il primo film di Marco Bellocchio, regista italiano e adesso presidente della Cineteca di Bologna. Efficace e sorprendente oggi quanto sessant’anni fa, il film non si limita a scardinare concetti e valori tradizionali, ma con la sua peculiare intensità visiva esplora anche i demoni dell’adolescenza e ciò che in gioventù ci spinge a cercare la libertà. Girata nel 1965, la pellicola rappresenta una rottura decisiva con le scelte del neorealismo e incarna una forma di protesta che prima era inimmaginabile. Realmente innovativo e visionario, accompagnato dalla colonna sonora di Ennio Morricone, questo film è tuttora considerato uno dei migliori debutti nella storia del cinema italiano, secondo solo a Ossessione di Luchino Visconti.

Alessandro, l’eroe di Lou Castel che qui dà una delle performance su schermo più ipnotiche di sempre, è schiacciato da legami familiari che si rifiuta di spezzare, visto quanta fatica costa a suo fratello maggiore Augusto (Marino Maze) supportare la famiglia e portarsi appresso il peso degli obblighi morali e delle spese economiche per mantenere la madre cieca (Liliana Gerace), la sorella nubile Giulia (Paola Pitagora), che nasconde sentimenti incestuosi per i suoi fratelli, e un altro fratello minore, Leone (Pier Luigi Troglio), che soffre di un ritardo mentale. Lo stesso Alessandro soffre di epilessia, la più spettacolare e “teatrale” di tutte le malattie, ed è incline a commettere atti folli e avventati, che lentamente lo trascinano verso il baratro, nel contempo rivelando la natura disturbata di coloro che lo circondano. Il film mette in scena il doloroso disintegrarsi dei legami familiari che avviene fra le quattro mura di una casa provinciale, che a sua volta diventa una metafora per l’istituzione della famiglia – fatiscente, basata su false convenzioni, che impone il silenzio e incoraggia la follia. Allo stesso tempo è una dichiarazione di decadenza non solo di una famiglia distrutta, ma di un’intera classe sociale, con Alessandro come testimone privilegiato. 

Alessandro fissa gli spettatori, in un fotogramma del film.

I pugni in tasca è l’iconografia di un mondo che cambia, dove la tragedia greca incontra il dramma occidentale e i racconti gotici. Inizia a provocare lo spettatore fin dai primi fotogrammi, mettendo in scena la follia, la decadenza fisica e psicologica, per finire con una scena potente e indimenticabile che può essere paragonata a un esorcismo, il tutto accompagnato dalla melodia di un’aria de La traviata di Verdi.

È comunemente riconosciuto che gli anni Sessanta furono il migliore momento per il cinema italiano. L’industria cinematografica, creata sotto Mussolini, coinvolgeva alcune delle persone più talentuose dell’epoca e aveva appena visto il neorealismo fare una nuova comparsa, con un’estetica e un metodo che è diventato una chiave universale per la modernizzazione di qualsiasi cinematografia che abbia bisogno di un cambiamento. Bellocchio produsse il suo primo film molto presto, quando aveva solo 26 anni. La generazione precedente di auteurs italiani debuttò in età molto più avanzate: Visconti a 37 anni, Fellini a 31, mentre Rossellini si approcciò a un cortometraggio all’inizio del suo quarto decennio di vita, producendone uno completo a 35 anni. Bellocchio, al contrario, scrisse la sceneggiatura di I pugni in tasca quando era studente. Per girarlo, usò denaro preso in prestito dai suoi familiari – cosa che non succedeva spesso negli anni Sessanta – e girò il film nella casa di campagna di sua madre, dove aveva trascorso l’infanzia.

Giulia prende il sole in un fotogramma del film.

Un altro tratto distintivo della produzione di questa pellicola è il laconismo della forma: immagini in bianco e nero, un modo calmo di narrare, con un pizzico di tristezza e malinconia, una struttura semplice e priva di interventi sul tempo e sullo spazio delle immagini. Il film potrebbe facilmente trasformarsi in una farsa o in una commedia nera, ma, con la performance intensa e le convincenti reazioni psicologiche di Lou Castel, Bellocchio come per magia trasforma la struttura narrativa in qualcosa di realistico, in uno spettacolo acuto e sincero che cattura l’attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine.

L’uscita del film fu piuttosto controversa. Il regista fu accusato di gettare fango sulla fede cattolica e sull’istituzione della famiglia; la pellicola fu rifiutata dal Festival del Cinema di Venezia e criticata da Bunuel e Antonioni, che il regista ammirava molto. Tuttavia, I pugni in tasca fu premiato al Locarno Film Festival, dove fu apprezzato dai critici della generazione più giovane per i suoi metodi e le sue idee innovative. Bernardo Bertolucci, che iniziava la sua carriera nello stesso periodo di Bellocchio, descrisse il film come “incredibilmente forte e potente e molto, molto atroce”. Pasolini, che era stato per entrambi i registi una grande influenza, affermò che Bellocchio “rappresenta un’alternativa culturale ai dieci anni che ci hanno preceduti” e paragonò il suo linguaggio cinematografico a una prosa con elementi di poesia.

Giulia e Alessandro in un fotogramma del film.

I pugni in tasca è pieno di ironia, malattie del corpo e della mente, tensione sessuale, attacchi epilettici e forte rabbia interiore. Alessandro è al centro di tutto questo. Il suo comportamento può essere paragonato a quello di un animale in gabbia ed è dovuto non solo dalla sua quasi intangibile alienazione dal mondo circostante, ma anche da una folle disperazione di trascendere la sua famiglia e il provincialismo a cui è costretto. Mentre suo fratello maggiore Augusto incarna il sogno di una vita indipendente, libera da valori antiquati, Alessandro ha l’impulso nichilistico di distruggere l’etica tradizionale. Il primo è un sognatore, mentre il secondo è un professionista disposto a qualsiasi cosa per realizzare il suo sogno, pienamente consapevole del fatto che lui stesso come rivoluzionario non ha futuro. Per liberare suo fratello dal peso della loro famiglia, egli arriva a compiere atti estremi. Bellocchio gira queste scene nella maniera più generale e distaccata che conosce, cercando di privarle di specificità e di elementi scioccanti, allo scopo di rappresentare solo una metafora della ribellione.

Girato solo un paio d’anni prima dell’esplosione dei disordini civili e studenteschi del maggio 1968, I pugni in tasca può essere considerato profetico in quanto prefazione a quegli eventi. Non solo mette in discussione il concetto di “norma” per come è comunemente accettato, ma mostra anche che le aspirazioni di ribellione nascoste dagli altri non possono che avere un’influenza negativa sullo stato emotivo di un giovane. Da qui, il passo è breve per la brillante congettura del regista sulla profonda connessione fra il desiderio per la scomposizione rapida e priva di compromessi della vita quotidiana e la progressione di una malattia mentale. In questo, Bellocchio vide e previde il dramma di un’intera generazione, che ancora oggi può offrirci intuizioni e riflessioni interessanti.

Immagine di copertina: Un fotogramma del film I pugni in tasca. 

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