Immagine in bianco e nero che rappresenta una statua di uomo a torso nudo in marmo vista da dietro e parte di una piazza piena di persone

Il Bigio tra storia e polemiche

Simbolo del fascismo o semplice scultura di valore storico-artistico? Come un colosso di marmo può scatenare un dibattito irrisolto da più di settant’anni tra arte, ideologie e goliardia.

Il cosiddetto Bigio è una scultura di 7 metri e mezzo di altezza e di 20 tonnellate di peso, realizzata in marmo di Carrara da Arturo Dazzi nel 1932. Essa rappresenta un muscoloso colosso nudo con i genitali in vista, che ebbe come modello un prestante giovane di Pietrasanta di nome Silvio Belli, individuato dall’artista a Forte dei Marmi, luogo dove venne scolpito. Il nome si deve probabilmente più al colore del marmo con cui è stata plasmata, marmo “bigio” per l’appunto, che alla forma dialettale del nome Luigi, come in molti credono. 

Secondo il progetto dell’architetto Marcello Piacentini, la statua venne collocata originariamente in Piazza della Vittoria, a completamento della fontana disegnata insieme al torrione INA, la Torre della Rivoluzione e il Palazzo Peregallo, a sostituzione di un’iniziale idea progettuale per la fontana che prevedeva la riproduzione della Vittoria Alata sulla sua sommità.
Benito Mussolini, che la vide per la prima volta in fotografia, la elogiò affermando che rappresentasse a pieno l’Era fascista, e questo divenne il suo appellativo ufficiale. Il primo novembre 1932 il duce la vide anche di persona durante la cerimonia d’inaugurazione della piazza alla quale presenziò tenendo anche un discorso dall’arengario e ne plaudì la potenza espressiva.
Già dopo qualche settimana dall’inaugurazione, il Bigio ricevette le prime critiche, inizialmente di carattere morale: il vescovo Giacinto Gaggia protestò pregando i parroci e i sacerdoti «di persuadere i genitori a non condurre i loro figli e le loro figlie dove la loro innocenza e pudicizia possono avere nocumento» (Bollettino della Diocesi, 1932). Nel 1933 si decise quindi di coprire le parti incriminate della statua con una foglia di vite in alluminio dipinta ad imitazione del marmo. Ma anche questa soluzione non fece che creare ulteriori polemiche, come quella sollevata dal podestà Fausto Lechi che constatava la decadenza della verniciatura della foglia, che metteva ancora più in evidenza il punto scabroso del corpo.
Alle polemiche ufficiali si intrecciano le vicende popolari che videro spesso il Bigio come oggetto di scherno e goliardia, più che di approvazione o di denuncia. Per esempio, nel 1939 sulla rivista Brixia fidelis venne pubblicata una poesia sotto lo pseudonimo di Rasighì, cioè “seghetto”:

«El Bigio
Sif vo 'l sior Bigio? oho dise, che maniere
de müsüraga i pign a chei che pasa,
e de ardà töc' con che la bröta cera!
Nom culpa no si va mes nǚt en piasa?
Sif forse gnec per via de che la foia
che va töt el piö mei de la osta fama?
Dif pas! Perché a la zent de buna oia,
ghe amò töt el de dre del panorama.
Certo chi va fat tort a daf la cacia,
quand pense che ghè tanc' che stares be
mandai en giro con la foia en facia.
Sti miga le a 'nrabif, che l'è on'ocada.
Quand va ve a tir de chei che pense me,
Nient pign; l'è a trop ona cicada».

Proprio in riferimento al «de dre del panorama», l’elegante Caffè Impero di Piazza Vittoria (chiuso nel 2013 e riaperto nel 2018) fu soprannominato café dele ciàpe (“caffè delle chiappe”) per via della vista che si poteva godere dai tavolini del locale e soprattutto dalle vetrate del primo piano.

Immagine in bianco e nero che rappresenta una statua di uomo a torso nudo in marmo con alle sue spalle l’insegna di un bar chiamato Caffè Impero
Il Bigio di Piazza Vittoria con il Caffè Impero alle sue spalle (Archivio del Centro RSI)

Alla fine della Seconda Guerra mondiale, a seguito delle contestazioni degli antifascisti e di numerosi atti vandalici (come l’innesco di cariche di dinamite che ne tranciarono una gamba, un braccio e la foglia di vite) il 13 ottobre 1945 la scultura venne rimossa e posta nei magazzini comunali di via Rose di Sotto. Da questo momento essa è al centro di un’accesa e continua polemica che dura da più di 70 anni. I cittadini bresciani sono divisi tra coloro che ne vorrebbero la ricollocazione per il valore storico artistico che essa rappresenterebbe, e coloro che, al contrario, non riconoscono alcun spessore artistico riconoscendola unicamente come inopportuno simbolo fascista.

Già nel 1953 sulla rivista Terra nostra nacque in dibattito sull’auspicato ritorno del Bigio: 

«ci scrivono anche per il Biancone, quel gran pupo bianco che han tolto dalla piazza della Vittoria. Dove è andato a finire? Sappiamo di certo che questa statua, non disprezzabile opera del Dazzi, pagata con soldi della città, non rappresenta nulla di politico. Rappresentava un bel pezzo di giovanotto, un atleta. Nel marasma del dopoguerra a qualcuno è venuto la voglia di fracassarlo e ci è riuscito in parte. Dalla piazza lo han tolto per ragioni di viabilità, si dice. Se è vero che le ragioni sono queste non si capisce perché non lo han messo su in castello o a porta Venezia. Ora questo marmo apuano giace nei magazzini del Comune con le numerose fontane tolte da vie e piazze. L'edera e la gramigna lo ricopriranno. I secoli passeranno sulle vecchie e sulle giovani pietre. E tra duemila anni le scopriranno i posteri e le ficcheranno in qualche museo»

(Mario Moretti, Referendum. Problemi di urbanistica cittadina da risolvere. Ognuno dica la sua. La politica non c'entra, maggio 1953, pp. 18-19).

La discussione tornò in auge a più riprese negli anni Settanta, quando, in occasione della progettazione del parcheggio sotterraneo della piazza in collaborazione con l’Agip, il progettista socialista Bruno Fedrigolli ipotizzò la ricollocazione del colosso nel suo luogo originale, o negli anni Ottanta con le proposte di vendere all’asta la statua e di rivalutare piazza della Vittoria secondo il progetto di Giorgio Lombardi che non andarono in porto, sebbene quest’ultimo fornisse una giustificazione:

«la distanza temporale avrebbe consentito di storicizzare questa esperienza e di leggere l'intervento di costruzione della piazza come un campione fra i più completi e riusciti di un'epoca della cultura urbanistica italiana»

(Franco Robecchi, Una cura d'urto per piazza della Vittoria, in AB, La rivista per un'altra idea di Brescia, estate 1988, p. 12).

Nel 2008 si aprì un confronto sul destino del Bigio in occasione della sistemazione di Piazza della Vittoria e con la pubblicazione della prima monografia dedicata all’argomento a cura dello storico Franco Robecchi; cinque anni dopo, con la chiusura dei lavori riesplose la polemica: l’Associazione Nazionale dei Partigiani d’Italia raccolse firme contro il ritorno del Bigio, mentre la destra bresciana affrontò il problema come una questione socio-politica.
Nel 2017 nacque l’idea di un referendum per decidere il destino della scultura ma si concluse con un nulla di fatto, e insieme a settanta opere dell’artista Mimmo Paladino sparse in tutta la città, sulla fontana di piazza Vittoria prese posto la Stele, una grande statua in marmo nero che simula le sembianze umane.

Scultura in marmo nero posta sopra ad una fontana in una piazza
La stele di Mimmo Paladino in Piazza della Vittoria a Brescia, come è oggi (Touring Club Italiano)

Ancora oggi la vicenda non ha visto una conclusione definitiva e viene periodicamente risollevata una volta per motivi politici o ideologici, un’altra a difesa dell’arte e della storia, dolorose da cancellare. Perfino uno storico inglese professore a Sydney all’Australian Catholic University (Nick Carter) si è interessato al caso del Bigio, come raccontato in un articolo di Maria Paola Pasini, comparso sul Corriere della Sera nel giugno del 2021. Come spiega la giornalista, il suo studio sulla scultura bresciana rientrava in una più ampia ricerca sul “Dissonant heritage” o «difficult or contested heritage», «ossia di quel patrimonio artistico, urbanistico materiale o immateriale che non risulta essere più in linea con i valori coevi: le eredità delle dittature del Novecento, ad esempio». Ma a differenza di molte altre opere d’arte fasciste coperte o smontate dopo la Seconda Guerra mondiale, che vennero restaurate e rimesse in mostra negli ultimi decenni senza particolari discussioni (come il caso dell’Apoteosi del Fascismo, il murale di Luigi Montanarini nel salone d’onore del CONI al Foro Italico, o quello di Mario Sironi nel rettorato della Sapienza), al Bigio non è ancora stato riconosciuto il suo valore storico-artistico, simbolo di una storia che fa ancora troppo male.

Immagine di copertina: Una foto storica del Bigio in piazza Vittoria

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