
«Viaggiare, […] come vivere, è anzitutto tralasciare». Claudio Magris scrive queste parole in una breve prefazione a Viaggio in Portogallo di José Saramago (trad. it. Feltrinelli 2011, p. 10), e vi concentra una verità che, a ben guardare, fa a pugni con la nostra abituale concezione di cosa significhi viaggiare. Del viaggio si è detto tanto, forse troppo, fino allo sfinimento retorico: il viaggio è conoscenza, il viaggio è scoperta, il viaggio è incontro e rivelazione. In ognuna di queste sue interpretazioni il viaggio colma la nostra aspirazione alla pienezza, all’assimilazione delle innumerevoli cose che stanno fuori di noi – da vedere, toccare, assaggiare, immortalare. Viaggiamo per conoscere – si dice – per ritagliare un pezzettino di mondo e mettercelo in tasca. Che il viaggio coincida, in ultima istanza, con l’attività del «tralasciare», sulle prime non ci suona affatto familiare. Noi facciamo le valigie, partiamo, arriviamo in città e luoghi mai visti, ci sorprendiamo, immagazziniamo, ritorniamo. Finalmente – pensiamo – riusciamo a guardare le cose con nuovi occhi, e torniamo a casa con uno sguardo inedito, con una comprensione più ricca del mondo. Ma è il caso che ci chiediamo se le cose, in realtà, stiano veramente così.
Nel metterci in viaggio, infatti, dovremmo prima di tutto ricordarci di Seneca: «Dovunque vai porti te stesso», scriveva, e con questo ammonimento sembra quasi rivolgersi a un’abitudine inveterata nel concepire il viaggio che da secoli contagia la nostra civiltà. Ne è l’emblema l’Ulisse dantesco, all’apparenza nume tutelare di ogni viaggiatore che voglia dirsi conoscitore di uomini e mondi: il suo, in verità, non è un vero conoscere, e su questo errore mitico dovremmo sostare a riflettere, perché continua a parlare di noi. Ulisse vola, come un folle, sul mare, preso da una smania di conoscenza che lo possiede e lo conduce di porto in porto fino al naufragio finale. Che cosa conosce, alla fine? Nulla, a ben guardare, se non gli infiniti riflessi di se stesso, proiettati su ciò che ogni volta gli si para davanti. Suo figli, noi continuiamo ancora oggi a cadere nel suo abbaglio. Abbiamo la stessa repulsione per i limiti, e quando viaggiamo pretendiamo di conoscere esattamente il posto in cui siamo, non accorgendoci di non comprendere proprio niente: quasi sempre, infatti, possediamo già la risposta che ci illudiamo di aver trovato. Davvero saremmo dei recipienti vuoti, riempiti dalle impressioni e dagli incontri? Siamo proprio sicuri di non portare nulla con noi – preconcetti, aspettative, pregiudizi? Quasi sempre chi indugia sulla retorica, simil-progressista, del viaggio come incontro del nuovo, indugia anche sul presunto stupore che il viaggiare ci recherebbe in dono. Ma guardiamolo bene, questo stupore: era già pronto da sempre, prima ancora di partire, messo ordinatamente in valigia con le camicie e gli occhiali da sole – sapevamo già cosa vedere e quando sarebbe stato opportuno spalancare la bocca. A ben guardare, tutto il contrario dello stupore e dell’incontro.
C’è poi un altro senso ancora in cui si può dire che siamo sempre noi stessi che portiamo nelle nostre peregrinazioni. Spesso il viaggiatore che siamo non è solo ingenuo, ma è anche consumista. Dietro di noi, si sa, si profila sempre l’ombra della società dei consumi, con le sue promesse di immediatezza e la sua malattia di accumulo. Ed eccolo, allora, il viaggiatore-consumatore: vuole tutto e subito, sosta un giorno in una città e dice di averla capita, e mentre vi transita vuol vedere tutto quanto è possibile, in un susseguirsi sfrenato di esperienze, nell’ansia di non perdersi nulla.
Di contro a tutto ciò, risuonano le parole di Magris: viaggiare, come vivere, è tralasciare. La vita e il viaggio sono da sempre accostate, il viaggiare è metafora per eccellenza del vivere: la vita è cammino, e nel cammino ci sono tappe, da cui ogni volta apprendiamo qualcosa. Ma il senso di questo cammino e di questo apprendere – ora lo sappiamo – va ripensato. Dobbiamo ammettere, a malincuore, che quel che ci lasciamo alle spalle è infinitamente di più di quel che riusciamo a vedere, e che in ogni viaggio la conoscenza non può che essere incerta e parziale. È per questo che il viaggio assomiglia, e forse coincide, con la vita: si vede e si fa sempre meno di quanto vorremmo, perché il tempo è quello che è, e le nostre forze pure. Possiamo prendere tutto ciò come una nuova verità sull’Essere – come una prova del fatto che, come scriveva Calvino, «ciò a cui il nulla si contrappone non è il tutto: è il poco», e che la parte preponderante del vivere ha il sapore amaro di ciò che non è stato e non sarà mai. Oppure, possiamo più semplicemente accettare il viaggio per quello che è: «scuola d’umiltà» (C. Magris, L’infinito viaggiare, Mondadori 2005, p. 220) che ci insegna qualcosa proprio mentre ci manifesta il nostro non capire granché.
Non è che da un viaggio non si possa tornare, alla fine, più arricchiti. Tutt’altro. Solo che dovremmo pensarci, per così dire, in tono minore: ovunque si vada, si bussa alle porte di un’umanità diversa e molteplice, e illudersi di comprenderla, in pochi giorni, è l’infido riverbero del nostro voler sempre avere tutto in palmo di mano.
Da questa illusione metteva in guardia anche Saramago, riflettendo sul suo girovagare per i vicoli di Lisbona: «Il viaggiatore [lui] ha visto tante cose del mondo e della vita e non gli è mai piaciuto ritrovarsi nella pelle del turista che gira, guarda, fa finta di capire, scatta fotografie e se ne torna nel proprio paese affermando di conoscere […]. Questo viaggiatore dev’essere onesto. È stato nel quartiere di Alfama, ma Alfama non sa che cosa sia» (Viaggio in Portogallo, cit., p. 353). Paradosso crudele, forse, ma vero nocciolo di quell’antica sapienza che da sempre sovrappone l’esistenza e il viaggio: in fondo, scrive Magris (Ivi, p. 11), come Saramago ad Alfama «anche noi siamo nella vita, senza sapere cosa sia».
Immagine di copertina: La foce del Tago.