Projections on a human screen: il nuovo disco di HÅN

Quattro chiacchiere con HÅN, artista emergente tra le più promettenti, che è uscita venerdì 1 aprile con il suo primo disco ufficiale.

Elizabeth Hardwick scrive «nel momento in cui viaggi, tutto diventa nuovo di colpo. La prima cosa che scopri, quando viaggi, è che non esisti».
È un pensiero interessante, il suo. Riflettendoci, siamo in grado di cambiare noi stessi ad una velocità impressionante nel momento in cui mettiamo piede in un luogo mai frequentato prima d’ora, la stessa velocità impiegata a metterci naturalmente in una posizione di difesa a seguito ad un gesto inaspettato, non previsto. 

Alcune persone, e tra queste spesso rispondo per primo all’appello, si definiscono tramite i posti che frequentano, le città che amano, i quartieri che considerano “casa”, non rendendosi talvolta conto che forse sono proprio loro stessi, spesso, a definire quei luoghi, conferendogli un’identità, tramite la propria presenza collettiva nello spazio.

Cosa significa quindi essere sinceri? Cosa significa quindi essere falsi? Cosa significa venir meno ad un’eventuale promessa sancita e siglata in un passato ipotetico, in un prima di ora, così radicata e sepolta dentro di noi da permetterci di non sentirci più noi stessi?

Chissà. 

E se l’unico modo di preservare una nostra unicità fosse, per assurdo, il nostro personalissimo e inequivocabile modo di cambiare? Se l’unica costante identitaria che possiamo aspirare a mantenere fosse il nostro approccio al cambiamento?  

Eppure, un artista ci pare incredibilmente più valente nelle proprie attività tanto più lo riteniamo vero, reale, e così vengono alla luce termini ormai inflazionati come la “street credibility”, la “realness” e il costante bisogno di dichiarare la veridicità delle proprie affermazioni, come fossimo davanti a un tribunale, usando la dicitura “no cap” quasi a mo’ di intercalare necessario.

Pensavo che forse, alla fine dei conti, un artista ci pare migliore quando pare sincero, non perché se non lo fosse ci sentiremmo presi in giro, ma perché probabilmente noteremmo la sua assenza in un mondo che cambia, e con mondo, intendo semplicemente egli stesso

Come affermavo poco fa, il cambiamento fa parte di ognuno di noi, e benché io mi sia sempre opposto alle colazioni, preferendo di gran lunga un valido aperitivo in tarda mattinata, eccomi subito pronto a ritrattare perché è proprio a colazione che ho incontrato l’artista che vi presento oggi. Una musicista di grande talento che, avendomi riportato più e più volte l’attenzione che pone alla sincerità nelle canzoni e negli artisti, nonché nelle ispirazioni ricevute dalle tre città nelle quali ha scritto il suo primo album, mi ha inconsapevolmente condotto a questa riflessione.

È un’artista super interessante, colpevole di aver scritto “Leave me!”, uno dei singoli che mi è girato più in testa nell’ultimo mese, portandomi ad aspettare impazientemente il suo nuovo disco, uscito venerdì 1 aprile.

Signore e signori, è un piacere dare il benvenuto, sugli schermi di Echo Tapes e ancor prima di Echo Raffiche, a Giulia, in arte HÅN.

Ciao Giulia! Raccontaci qualcosa di te.

Ciao, mi chiamo Giulia, sono nata nel 1996 e faccio musica da ormai molto tempo, anche se il progetto HÅN esiste da circa 4 anni.
Venerdì è uscito finalmente il mio primo album, visto che ad oggi sono usciti solamente singoli ed EP; durante il mio percorso ho avuto occasione di suonare in diversi festival all’estero, tra i quali sicuramente il mio preferito è stato il Primavera Sound di Barcellona
Da quando ho iniziato ho sempre pubblicato sotto etichetta indipendente, nello specifico Factory Flaws. Circa un anno fa ho firmato con Sony Music per la pubblicazione di questo disco.

Raccontami un po’ dell’album: che tematiche e atmosfere troveremo al suo interno?

È un disco che ho composto tra Londra, dove ho vissuto un anno, Milano, che è la città dove attualmente vivo, e la casa dove sono cresciuta, sul Lago di Garda. È un po’ come se fosse un diario, un insieme di esperienze che ho vissuto a livello molto personale. E’ un po’ una metafora della mia dimensione personale, un po’ infantile ed ingenua, che si scontra con il mondo fuori.
Quasi tutto l’album è stato scritto nella mia camera, proprio come un diario appunto, la prospettiva è quindi molto intima. Tutto questo ho voluto trasparisse un po’ anche dalla copertina che è stata realizzata nella mia camera di Milano.

painting by Tulpess, tracklist by Dario Pasqualini

A proposito della copertina:  ha un’estetica decisamente particolare.

Si, il disegno della cover volevo che rimandasse un po’ ad un’estetica infantile. Per realizzare la copertina ho scelto Tulpess, proprio perché ha questo modo di disegnare che ricalca quel tipo di immaginario “ingenuo” ma pensato. 

Il font che avete scelto per la copertina mi pare essere però in netto contrasto con questo immaginario, sembra quasi un po’ aggressivo…

Si, è per sottolineare il contrasto nella tematica del disco. e questo ritorna anche nelle foto. Quando le abbiamo realizzate, abbiamo appeso alle pareti della mia camera una serie di fotografie di animali (cani, agnelli, conigli) generalmente associati all’innocenza, però scegliendo dei ritratti un po’ inquietanti e buffi. 

Questi elementi, in opposizione tra loro, mirano forse a rappresentare le differenti sfumature di pensiero che si incontrano?

È il bello di realizzare cose creative, che si tratti di comporre musica o realizzare delle fotografie. Inconsciamente emergono delle cose, che ragionandoci a posteriori assumono un significato
Uno dei miei grandi temi infatti è proprio il conflitto del passare all’età adulta, del crescere; coesistono quindi due dimensioni in queste immagini: la dimensione un po’ più infantile, che si va a scontrare con quella un po’ più aggressiva e creepy.

Musicalmente invece, dal tuo punto di vista, come suona il disco?

L’ho registrato ormai quasi un anno fa, quindi riesco a vederlo anche in maniera più oggettiva.
Lo percepisco come il mio lavoro migliore finora, si può percepire che sono uscita anche un po’ dal mio solito, sia per quanto riguarda l’esperienza all’estero che per aver collaborato con persone diverse. Ad esempio le batterie (che in realtà sono ancora sample) virano verso una direzione più suonata ed acustica rispetto ai lavori precedenti, una cosa su cui sto lavorando per i progetti futuri, dove la batteria viene suonata realmente.
Scrivendo l’album ho scoperto infatti un sacco di cose che ora mi piacciono e che prima non consideravo allo stesso modo.

In “Leave Me!”, uno dei singoli che anticipa l’album, ci sono momenti in cui la voce subisce delle modulazioni. Sarà una costante nel disco?

No, è una cosa che ho utilizzato soltanto in questa traccia e in “Bicycle”, dove il formant è utilizzato per sottolineare una dinamica atipica del ritornello: il pezzo decresce, e la voce diventa minuscola. 
Sono effetti molto utilizzati ovviamente, ma mi diverte sempre esplorare come può venire modificata la voce.

Prima parlavi di batterie acustiche. La tua ricerca è quindi ora mirata verso un immaginario più acustico e più asciutto – anche in termine di suoni – o manterrai comunque un orientamento mirato alla sperimentazione?

Una cosa che mi sta piacendo molto ultimamente è utilizzare l’acustico in maniera non classica; anche qui un grande maestro è Bon Iver, dove il suono parte pulito per poi essere un po’ distrutto. Penso che tutto ciò dia decisamente più pasta, soprattutto nei live.

Qual è il tuo approccio alla scrittura e alla composizione dal punto di vista musicale?

Generalmente parto da un giro di accordi, che solitamente può anche non essere scritto direttamente da me in prima persona, ovvero può venire da un producer con cui collaboro o anche da un pezzo che esiste già. Poi compongo la melodia della voce e infine scrivo il testo. Solitamnte è tutto abbastanza naturale e cerco di finire i pezzi nel momento in cui li inizio anche se ciascuno va a suo modo. Scrivo da sempre in inglese, anche se per la prima volta ultimamente sto provando un po’ a scrivere in italiano: non mi dispiace, ma è una cosa decisamente diversa.

Che rapporto hai invece con l’immagine e con i social, rispetto al tuo progetto?

Per quanto riguarda la parte visiva del progetto ho un ottimo rapporto. Ho sempre avuto le idee molto chiare sull’identità visiva, che per me è importante quanto la musica: tutte le foto, le grafiche e i video che pubblico sono per il 90% idee mie, sulle quali poi lavoriamo.
Per quanto riguarda i social invece non sono esattamente un amante, non sono così stimolanti per me. É molto bello quando permettono lo scambio e il dialogo tra le persone, come anche per ispirazione, mentre non amo l’influenza che hanno su ciò che poi andrò a postare, cosa che almeno un po’ si verifica, per forza di cose.

Nella musica invece senti questa influenza?

No, in realtà. Ho sempre avuto la possibilità di fare ciò che mi piace.

Ci sono degli artisti che ti piacciono ultimamente e che ti senti di consigliare?

Di internazionali: Dijon, L’ultimo disco di FK Twigs, Pink Pantheress, Saya Gray (bassista di Daniel Cesar); mentre per quanto riguarda gli italiani mi piacciono molto: Generic Animal, Iside, dolcedormire e in generale tutta la musica che percepisco come estremamente sincera.

Ringrazio molto Giulia per questa interessante chiacchierata, e vi consiglio vivamente di seguirla, anche per restare aggiornati sulle prossime date, che al momento sono:

Milano, Arci Bellezza, il 15 Aprile
Roma, Alcazar, il 22 Aprile

Immagine di copertina: Photo Credits: Rebeca Margescu, Marco Sciacqua

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