
Se volessi raffigurare con un’immagine la scuola italiana, probabilmente sceglierei un colabrodo: fa acqua da tutte le parti, ma tutto sommato alla fine del percorso qualcosa di buono rimane. Per quanto riguarda ad esempio l’italiano, che cosa si trattiene? Tanta, troppa poesia, soprattutto vecchia; qualche romanzo alle soglie del Novecento e poco altro. Uno studente alla fine del suo percorso scolastico (diciamo liceale, ma senza voler passare per classisti) sarà arrivato a leggere gli imprescindibili Montale, Ungaretti, Saba; avrà sentito parlare di nomi come Calvino, Buzzati o Levi e forse di qualche altro autore jolly, a discrezione del docente.
C’è il rischio che molti studenti, in particolare coloro che non coltiveranno in futuro la passione per la lettura, rimangano convinti che la letteratura italiana sia “quella roba lì”. Invece, nella terra della lirica di Petrarca di Leopardi, sarebbe opportuno lasciare più spazio non solo ai romanzi e alla letteratura contemporanea, ma anche a tutto quell’universo spesso più stimolante perché più vicino a noi: incluso quella della saggistica, che, oltre a fornire buoni esempi di scrittura argomentativa, permette di allenare la riflessione e il famoso “pensiero critico”.
Tra i tanti esclusi che vorrei mi avessero proposto già a scuola, occupa un posto speciale Ignazio Silone. Lasciamo da parte i suoi romanzi, i cui miseri contadini alle prese con gli stenti della vita rurale potrebbero riaccendere in molti il trauma di Verga; concentriamoci invece su uno dei suoi ultimi lavori: Uscita di sicurezza.

Pubblicata nel 1965, dopo che l’autore aveva già raggiunto una certa notorietà grazie ai suoi romanzi meridionalisti, quest’opera si pone a metà tra il saggio, il racconto e l’autobiografia. Non solo offre preziose testimonianze di storia italiana, ma in essa l’autore riflette con lucidità e rara onestà intellettuale su snodi cruciali della società italiana e occidentale, ieri come oggi.
All’inizio del libro, attraverso vivide narrazioni in prima persona, Silone ripercorre alcuni episodi della sua gioventù, vissuta nel poverissimo Abruzzo degli anni ’10.
In breve passa a raccontare la sua militanza nel neonato Partito Comunista Italiano: dai motivi più intimi che l’hanno portato all’adesione, passando per gli anni di clandestinità durante il Regime fascista, alle riunioni del Comintern al fianco di Palmiro Togliatti, sino alla sofferta rottura a causa di insanabili fratture ideologiche.
Memorabile è ad esempio un episodio (confermato poi dallo stesso Togliatti) del 5 aprile 1927. In una seduta dell’Esecutivo dell’Internazionale Comunista i delegati, tra cui Stalin, si ritrovarono per liquidare Trotzky sulla base di un documento che aveva scritto. Il contenuto di tale documento era ritenuto controrivoluzionario, ma nessuno dei presenti ebbe modo di leggerlo: dovevano condannarlo alla cieca, senza alcun dibattito. Silone si rifiutò di condannare qualcosa di cui non conosceva la natura, e da quel momento in poi, dato che non si era piegato alle bieche modalità del Comintern, divenne un “sorvegliato speciale” (ma anche più tardi, proprio a causa delle sue posizioni eterodosse, Silone verrà in parte ostracizzato dalla cultura engagé italiana).
Le riflessioni forse più interessanti sono contenute nella parte finale del volume, intitolata Ripensare il progresso. Sebbene siano pagine vecchie più di sessant’anni, è sorprendente notare quanti dei problemi analizzati da Silone siano oggi non solo presenti, ma incancreniti e ancora più pressanti.

Pensiamo ad esempio al rapporto tra agiatezza e costume, tra benessere e moralità, di cui Silone discute nel suo saggio: durante il secondo dopoguerra era ancora viva la speranza che un mutamento economico avrebbe automaticamente prodotto emancipazione sociale e condizioni per sviluppare al meglio la propria libertà.
Non solo: per chi già allora nutriva dubbi nel modello occidentale e nelle sue falle, esisteva la possibilità di guardare all’Unione Sovietica come presunta patria dell’uomo nuovo.
Oggi vediamo fin troppo bene che il benessere non ha affatto contribuito a quella partecipazione alla vita politica e sociale in cui si sperava, al contrario i dati sull’affluenza elettorale o sulla partecipazione dei giovani alla politica ci dicono che la situazione è drammaticamente peggiorata. Esistono sì molti movimenti che di fatto hanno natura politica, dai movimenti LGBTQIA+ al Friday for future, ma la partecipazione ai canali politici tradizionali come le riunioni di partito è pressoché sparita tra i giovani, che non formano più la cosiddetta “base”.
Ciò non significa che il benessere vada condannato come capro espiatorio. Silone, che ha vissuto la miseria del Meridione lo dice esplicitamente: «nessuna requisitoria contro gli inconvenienti del benessere potrà mai far rimpiangere la miseria a chi ne abbia una qualche esperienza o nozione».
L’autore sembra piuttosto suggerire che negli anni il concetto di progresso sia stato assimilato a quello di sviluppo, inteso in senso puramente tecnico-scientifico o di crescita economica, mentre dovrebbe ruotare sempre e comunque attorno ad un principio opposto all’ordine costituito, in cui possano confluire interessi danneggiati, bisogni insoddisfatti, rivendicazioni morali.
Dovremmo forse, e con noi le forze politiche, tornare a porci questi interrogativi che spesso esulano da questioni puramente materiali. Per esempio, se è vero che una delle più grandi ambizioni delle democrazie moderne è aspirare all’uguaglianza, l’aumento costante nella disparità nella distribuzione di ricchezza è un fenomeno diffusamente accettato ma completamente in antitesi con questo proposito. Ad esempio: quand’è che abbiamo smesso di chiederci se sia giusto che il CEO di un’azienda italiana guadagni in media seicento volte di più di un suo dipendente?
L’autore non fornisce soluzioni o risposte univoche per questo e altri simili dilemmi, ma ritiene che «ogni atteggiamento mentale che induca alla rassegnazione è inaccettabile», parole tanto più significative perché provengono da qualcuno che non solo conosce la lotta, ma anche la sconfitta. Mescolando dottrina politica e sentimento cristiano, Silone arriva a postulare che il socialismo altro non è se non «aspirazione permanente dello spirito umano assetato di giustizia sociale», ed è con questo atteggiamento che propone di muoverci nell’agone politico. Se non altro perché è difficile, forse impossibile, vivere senza un’idea del domani.
Riproporre la lettura di Uscita di sicurezza non è solo un’ottima lezione di prosa: più di ogni altra cosa aiuta a rimetterci in gioco come soggetti politici, come persone in grado di porsi quesiti etici e fornisce un esempio lampante sulla differenza fondamentale tra morale e moralismo.
Immagine di copertina: Illustrazione di @chiaramoresco3