Una delle fotografie di “Toponomastica femminista”

Che cosa c’è in un nome – Per una toponomastica transfemminista

A Brescia solo il 2 % delle strade è intitolato a donne. Cosa ci dice, questo, degli spazi che abitiamo? È quel che si chiedono Elisa Chiari e Nina Grazzi nel loro ultimo progetto.

BRESCIA Alle sue “città invisibili” Calvino aveva dato nomi originali, un po’ bizzarri, che di quei luoghi immaginari cercavano di restituire, plasticamente, la forma e il carattere. Anche i nomi che riecheggiano nelle nostre città – nelle vie, nelle piazze, nei parchi – dicono qualcosa di concreto sulla realtà di questi spazi: parlano infatti di un ambiente maschile, pensato e costruito da uomini, per gli uomini. Secondo uno studio di “Toponomastica femminile”, in Italia solo il 3-5% degli spazi pubblici è intitolato a donne, e a Brescia, col 2,4 %, siamo anche al di sotto della media nazionale.
Ma da questa città “androcentrica” potrebbe emergerne un’altra, transfemminista: una città, ora invisibile, costruita proprio a partire dalla toponomastica. È questa l’idea che sta al centro del progetto “Toponomastica femminista” di Elisa Chiari e Nina Grazzi, esposto domenica 21 maggio a Palazzo Guaineri a Brescia, nell’ambito dell’evento “Cortili aperti” organizzato dal collettivo bresciano “Cuspide”. Entrambe bresciane, la prima è fotografa e film-maker freelance, la seconda è una visual designer: le abbiamo incontrate per riflettere con loro su come la toponomastica, presente e futura, non sia solo una questione di nomi, ma rappresenti una vera e propria «metonimia» della città e della società che la abita. 

Grazie di averci concesso questa intervista e complimenti per il vostro lavoro. Come è nata l’idea di questo progetto?

Elisa: Qualche mese fa siamo state contattate dal collettivo bresciano Cuspide per proporre un progetto che riflettesse sulla risignificazione degli spazi pubblici: subito abbiamo deciso di concentrarci sullo spazio cittadino guardandolo da una prospettiva di genere, per dimostrare come non sia uno spazio neutro, ma, al contrario, figlio dello sguardo di chi l’ha progettato – uno sguardo che storicamente è maschile e androcentrico. Da qui il nostro interesse si è mosso verso la toponomastica, perché ci siamo rese conto di come quest’ultima sia in grado di dare un riscontro effettivo dello squilibrio di genere che permea tutte le nostre città. Il dato di Brescia lo riflette in modo nitido: solo il 2,4 % degli spazi è intitolato a donne. A livello nazionale esiste già un gruppo, chiamato “Toponomastica femminile”, che fa ricerche statistiche di questo tipo, per calcolare quali percentuali di spazi pubblici siano dedicati a donne nelle città italiane. Noi abbiamo voluto proporre un esercizio più pratico che potesse dare una restituzione tangibile di questa ricerca, proponendo un’osservazione della città attraverso lenti femministe, per far trapelare anche un diverso modo di viverne gli spazi.

Dettaglio dell’esposizione a “Cortili aperti”
Un dettaglio dell’esposizione “Toponomastica femminista” tenutasi nel cortile di Palazzo Guaineri in via Moretto a Brescia.
Foto di Elisa Chiari

Il vostro lavoro si compone di due parti, un’esposizione fotografica e una mappa della toponomastica femminile di Brescia: quale significato hanno e che contributo ha dato, rispettivamente, ognuna di voi?

Elisa: Io mi sono occupata di fotografare tutti i luoghi di Brescia intitolati a donne, dal centro storico alla periferia. Quando ho cominciato ancora non sapevo bene che cosa avrei voluto fotografare, mi sono lasciata guidare dai luoghi stessi, che in alcuni casi visitavo per la prima volta. Ne sono uscite fotografie abbastanza varie: si passa da dei totali dei luoghi a dei micro-dettagli, come statue o cartelli, che mi sono sembrati particolarmente rappresentativi di questi spazi. In generale, ho cercato proprio di far sì che la fotografia rappresentasse il quartiere in cui è stata scattata. Oltre a queste foto, però, ci sono anche dei ritratti di donne che abitano i luoghi della toponomastica femminile di Brescia – donne che ho avuto modo di interrogare su queste tematiche, chiedendo loro a quale figura femminile avrebbero voluto intitolare uno spazio pubblico della città. Questo per affiancare al lavoro di restituzione della condizione della Brescia femminile anche un impegno costruttivo, per dar vita a nuovi spazi e a nuovi contesti.

Nina: Il mio contributo è stato per la parte grafica. A mio parere la mappa, come le fotografie, offre una restituzione visiva tangibile dello squilibrio di genere, cogliendolo però a un livello più macroscopico, cercando anche di dare dei suggerimenti di lettura – e dunque di riflessione. La chiave interpretativa è suggerita dalle semplici infografiche che abbiamo affiancato alla piantina: vi è riportata, oltre al dato, già ricordato, sulla percentuale esigua di spazi pubblici dedicati a donne, anche l’informazione sulle categorie femminili rappresentate. Ne emerge, poco sorprendentemente, una netta prevalenza di figure religiose o comunque legate a tutto ciò che ha a che fare con la cura e l’assistenza. La nostra idea era che queste grafiche venissero integrate con la visione delle fotografie, in un percorso espositivo che non volevamo fosse esperito per forza in modo lineare dal visitatore. Vorrei anche aggiungere che quello delle categorie femminili rappresentate non è l’unico livello di approfondimento possibile, ma ce ne sono altri che meriterebbero uno studio ad hoc: per esempio, quello storico-politico o, se vogliamo, amministrativo-decisionale, che indaghi sui periodi storici e sui contesti politici che hanno portato alla scelta di certi nomi per la toponomastica della nostra città, oppure, ancora, quello sulla peculiarità toponomastica delle singole zone o dei singoli quartieri.

Dal vostro lavoro emerge come quello dell’assenza di un’adeguata toponomastica femminile non sia solo un problema statistico, perché tra l’intitolazione di un luogo e la sua forma sembra sussistere una relazione più profonda: potreste spiegare il significato che ha per voi questo rapporto?

Elisa: L’idea di base è che l’atto di dare un nome alle cose non sia soltanto simbolico, ma ontologico e, soprattutto, un’operazione culturale. I toponimi sono contenitori di tutta una serie di tradizioni, usi, leggende, e quindi la toponomastica può essere letta come una sorta di proiezione diretta della nostra cultura e della nostra struttura sociale, così come della profonda disparità di genere in cui viviamo.

Nina: Condivido l’accento posto da Elisa sul simbolismo tangibile della toponomastica, la quale è una vera e propria metonimia della città e della sua società. In questo senso, la costruzione di una toponomastica femminista non è un semplice esercizio di rinominazione degli spazi, ma porta con sé il modo stesso di vivere quegli spazi e i loro valori – porta con sé, cioè, l’idea di una città che è pronta a modificarsi e a cambiare il suo aspetto.

Che immagine di Brescia è emersa da questo lavoro sulla toponomastica?

Elisa: L’immagine – e la realtà – di una città molto maschile nella sua progettazione e nella sua articolazione, pensata per tempi di vita e di lavoro che sono più maschili che femminili. Da qui potrebbero prendere il via tutta una serie di riflessioni sul perché la città sia in generale uno spazio maschile, come emerge per esempio col tema della sicurezza, delle donne che ancora non si sentono sicure nell’attraversare lo spazio della città o alcune sue zone. Un altro aspetto, poi, è quello che emerge se si pensa che le donne, dovendo in molti casi farsi ancora carico dei lavori di cura e di assistenza – a cui sono legate dal loro stereotipo di genere – hanno dei tempi di vita differenti da quelli maschili, più legati al quartiere, con attività che prevedono un uso della città che non è stato preso in considerazione quando questa è stata progettata. 

Mappa della toponomastica femminile a Brescia
La mappa della toponomastica femminile bresciana realizzata per il progetto “Toponomastica femminista”.
Foto di Elisa Chiari.

Secondo voi qual è, in una città, l’elemento urbanistico che denota più androcentrismo? 

Nina: Forse la statua, che già dalla sua nudità emana benessere corporeo e prestanza fisica, tradendo un certo culto della virilità.

Elisa: Secondo me, in negativo, androcentriche sono anche una serie di mancanze che si notano all’interno della città. Per esempio, in alcuni centri urbani, lo scarso numero di servizi che permettano alle donne, e in particolare alle madri, di non dover addossarsi totalmente l’aspetto della cura: asili pubblici accessibili a tutte o doposcuola per i bambini e i ragazzi – attività di assistenza con cui sarebbe la città a farsi carico di ciò che da sempre grava invece sulle sole donne. 

Durante la mostra a “Cortili aperti” avete distribuito anche delle cartoline con un QR code attraverso cui il visitatore poteva proporre un nome femminile per rinominare una via bresciana. Che accoglienza ha avuto tra i visitatori questa iniziativa? E che seguito pensate di darle?

Nina: Il riscontro è stato positivo, per quanto non ampissimo, ma abbiamo comunque raccolto diverse risposte. Stiamo ragionando su possibili forme di interazione sempre attraverso il QR code, magari più diffuse – banalmente, lasciando in giro per la città le nostre cartoline. Riflettiamo anche su come archiviare, utilizzare o diffondere le proposte raccolte e le loro motivazioni. Non da ultimo, sarebbe interessante pensare a un modo per farle arrivare all’attenzione dell’Amministrazione comunale.

Tra le donne della toponomastica bresciana ce n’è qualcuna che considerate particolarmente significativa? Voi chi proporreste per intitolarle un luogo?

Elisa: La realizzazione di questo progetto è stata molto bella perché ci ha permesso di conoscere la storia di molte figure femminili che hanno fatto la storia, bresciana e non. Cito per esempio le sorelle Rosa e Carolina Agazzi, a cui è intitolata una via a Mompiano, che sono state due pedagogiste ed educatrici sperimentali il cui metodo educativo ha rivoluzionato l’istruzione italiana, che hanno ideato la scuola materna e introdotto anche metodi educativi particolari, come l’“educazione al sentimento” – un’idea che da parte mia trovo molto bella.

Nina: Per quanto riguarda le nuove intitolazioni, mi vengono in mente due donne. Una è Jane Jacobs, antropologa americana che ha sviluppato studi molto importanti e significativi sull’urbanistica, l’altra è Lucy Salani, la donna transgender sopravvissuta al campo nazista di Dachau, morta quest’anno. 

Cartoline con QR code distribuite durante l’esposizione
Alcune delle cartoline con il QR code per proporre un nome femminile a cui intitolare una via.
Foto di Elisa Chiari

La toponomastica femminista, dunque, come primo passo per costruire una città transfemminista: come immaginate questa città? È possibile crearla senza che sia una semplice reazione a quella costruita a misura di maschio?

Nina: Io credo che sia possibile, anche se non è facile, perché la città a misura di maschio è l’unica tipologia urbanistica in cui noi abbiamo vissuto fino a oggi, e costruire qualcosa che non è mai esistito è senz’altro molto difficile. Penso però che la costruzione di una città transfemminista debba necessariamente passare dalla costruzione di cittadini transfemministi e di cittadine transfemministe, e in questo senso non esiste una via alternativa a un’educazione che produca avvicinamento e inclusione. Non voglio parlare per altre, ma credo che alla domanda sulla forma di una città a misura di donna la maggior parte delle donne risponderebbe: una città sicura. È un tema importante, come ha detto anche Elisa, e mi dispiace che ora sia politicamente strattonato, soprattutto dalla destra, come risposta a fenomeni di criminalità o in riferimento all’immigrazione, perché non è questa la sicurezza a cui io e molte altre facciamo riferimento. Per le donne, la sicurezza passa attraverso infrastrutture e progettualità condivise, a partire da una spinta dal basso. Qui mi sto riferendo ovviamente non alla città per me ideale, ma a quella reale, che purtroppo non è sicura per tutti e tutte e deve prevedere dunque anche questa dimensione di tutela della sicurezza, che, nella città dei sogni, non sarebbe necessaria.

Elisa: Condivido tutto quello che ha detto Nina. È importante che l’idea che filtri dal nostro progetto sia quella che una città transfemminista debba essere una città che si impegna a essere più inclusiva rispetto alle necessità di tutti i corpi che abitano lo spazio – non solamente delle donne –, perché la nostra percezione dello spazio varia non solo a seconda del nostro genere, ma anche del nostro status economico, del lavoro che svolgiamo, dell’appartenenza sociale. E allo stesso modo cambia anche il nostro concetto di cosa significhi sentirsi sicuri e accolti da una città. Si dovrebbe costruire una città più inclusiva e più a misura di tutte e di tutti, una città in ascolto

Che futuro immaginate per questo progetto? Lo riproporrete altrove o in altre forme?

Nina: Ci auspichiamo di sì, anche se per ora non c’è niente di programmato. Ci piacerebbe, da un lato, riprodurlo in altri contesti sempre qui a Brescia – magari arricchendolo con una pubblicazione –, e, dall’altro, provare a replicarne il format in altre città italiane.

Elisa: Chissà, magari un giorno ci sarà una toponomastica femminista di Torino o di Bologna…Intanto però ci concentriamo su Brescia, per cercare di far arrivare a più persone possibili la nostra iniziativa.

Fotografia che ritrae Elisa Chiari e Nina Grazzi a “Cortili aperti”
Le due autrici del progetto, Elisa Chiari e Nina Grazzi.
Foto di Elisa Chiari

Immagine di copertina: Una delle fotografie che compongono il progetto. Credits: Elisa Chiari

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