Ritratto del poeta con un papavero sullo sfondo

Con alterna chiave – Memoria e vita nella poesia di Paul Celan

Nella sua opera, il poeta scampato alla Shoah riflette spesso sul contrasto tra dovere di ricordare e desiderio di vivere, e sulla sua possibile risoluzione.

Condizione strana, quella del poeta: uomo tra gli uomini, con essi partecipe del fluire dell’esistenza senza il quale non avrebbe di che cantare, la sua attività nasce soltanto nel raccoglimento solitario, in cui il vivere è messo in sospeso e il mondo ripercorso nella mente. In questo esercizio, egli non solo dà ordine ai pensieri e alle impressioni del presente, ma si pone anche nella situazione, perturbante, di venire visitato dalle ombre del passato: «Un uomo solodiceva di sé il poeta Giorgio Caproni – chiuso nella sua stanza. / Con tutte le sue ragioni. / Tutti i suoi torti. / Solo in una stanza vuota, / a parlare. Ai morti» (G. Caproni, Condizione, in Id., Tutte le poesie, Garzanti 1999, p. 303). Così, oltre al contrasto tra poesia e vita, egli è invitato, dalla sua stessa esperienza, ad approfondire anche quello, più universale, tra il desiderio di vivere, che guarda al futuro, e la memoria, che richiama a voltarsi verso ciò che, il più delle volte, si vorrebbe dimenticare. Chi, nel Novecento, ha fatto di questa dicotomia il fulcro stesso della sua produzione poetica è stato Paul Celan (1920-1970).

Fotografia che ritrae Paul Celan
Ritratto di Paul Celan.
Credits: Effigie

Nato a Czernowitz, vitale città dell’Europa orientale, un anno dopo il suo passaggio dall’Impero austroungarico alla Romania, Celan apparteneva alla cospicua comunità degli ebrei di lingua tedesca falciata, con l’invasione del 1941, dalle deportazioni naziste. Fu questo sterminio, nel quale trovarono la morte anche i suoi genitori, l’evento che condizionò per sempre il suo destino umano e poetico, portandolo a instaurare, lungo tutta la sua opera, un confronto serrato e drammatico con le “ombre“ – come le chiama lui (die Schatten) – del passato e con la loro memoria.

Ma cosa rappresenta, per Celan, la memoria? Un fardello, un tormento, un dono? In un certo senso, tutte queste cose, a seconda delle variazioni della sua poetica. Di certo, nella sua opera essa si pone sempre, almeno in partenza, in una relazione difficile e quasi antitetica con la vita. Egli sa, infatti, che la volontà di godere dell’esistenza e di progettare il futuro mal si conciliano, nella maggior parte degli uomini, con l’esercizio, spesso doloroso, della memoria. Lo sa, perché lo vive per primo sulla propria pelle: il trauma, profondo, che ha vissuto lo tormenta e lo spinge a parlarne, eppure in lui vive anche il desiderio, gravido di senso di colpa, di un oblio liberatorio che lasci spazio al vivere spensierato.

Questo conflitto Celan lo esprime in maniera folgorante nel titolo della sua prima raccolta (1952): Papavero e memoria (Mohn und Gedächtnis). È questa l’alternativa, drammatica, che si presenta al poeta: guardare in faccia i fantasmi del passato, andando a visitarli nel luogo in cui ancora vivono (la memoria), oppure abbandonarsi alla dimenticanza, di cui il papavero – il fiore dell’oppio – è il simbolo poetico. Ma di questa tensione, così originaria da divenire metafora anche del rapporto amoroso – «noi ci amiamo come papavero e memoria», scrive nella poesia Corona (in P. Celan, Poesie, trad. it. di G. Bevilacqua, Mondadori 1998, p. 59) –, si deve tentare una conciliazione, perché i tempi sono maturi – sia per lui che per la società del Dopoguerra – affinché la tragedia a cui si è sopravvissuti divenga l’humus da cui possa germogliare un’esistenza rinnovata («È tempo che la pietra accetti di fiorire, / che l’affanno abbia un cuore che batte. / È tempo che sia tempo», ibid.)

Illustrazione, tre papaveri con ombre grigie indefinite sullo sfondo
Illustrazione di Anna-Maria Stefini.

Perché ciò sia possibile, occorre che il passato conviva col presente – che le ombre, nel linguaggio metaforico di Celan, vengano accolte nella città dei vivi. È di questo che parla la sua seconda raccolta, Di soglia in soglia (Von Schwelle zu Schwelle), del 1955. Il passaggio da una “soglia” a un’altra, evocato dal titolo, vuole rappresentare quel mutamento che sia lui che la sua epoca devono mettere in atto, e che consiste nell’operazione di fare spazio, nel presente, alle ombre del passato invitandole a trasferirsi, dalla vecchia soglia a cui appartengono (il mondo devastato dal conflitto e dallo sterminio), in quella nuova, che si sta costruendo. 

Degli ostacoli, però, si oppongono a questa operazione. Nel tempo in cui scrive, quella che lui chiama la «notte» (die Nacht) – metafora della tragedia appena accaduta – si trova infatti in una condizione difficile. Come scrive, in modo evocativo, nella poesia Argumentum e silentio, essa è «messa alla catena / tra oro e oblio» (ivi, p. 237): i suoi contemporanei, o scelgono di dimenticare – per meglio vivere –, oppure, quando ricordano, inciampano nella retorica vuota ed estetizzante (l’“oro”) tipica dell’oratoria pubblica delle ricorrenze o della poesia di contenuto civile. In questo modo, però, ciò che ne risulta è, in un caso, l’oblio e, nell’altro, la neutralizzazione del significato di ciò che invece andrebbe posto, come monito, a fondamento della comunità futura. 

Celan propone allora una via alternativa. Mantenendo uno stile ermetico che eviti l’estetizzazione del dramma, il poeta può con la sua voce, se non risolvere, almeno equilibrare il contrasto tra vita e memoria, facendo sì che quest’ultima divenga davvero, per la prima, monito e, quando possibile, fonte di senso. Certo, il ricordo è doloroso e non gli si può concedere tutto, perché l’esistenza ne verrebbe paralizzata e anche il poeta, senza la luce del vivere, sarebbe condotto all’afasia. Occorre dunque che ciò che fa parte del passato più traumatico venga fatto entrare un po’ alla volta, con la parola poetica, nella nuova vita che si vuole progettare. Sta al poeta compiere questa mediazione, che Celan paragona, nella lirica Con alterna chiave, all’atto di far filtrare la luce in una casa abbandonata: «Con alterna chiave / tu schiudi la casa dove / la neve volteggia delle cose taciute» (ivi, p. 189). Nel suo linguaggio, la “neve” simboleggia l’Olocausto, che, come altri eventi tragici del Novecento, tende a essere obliterato dalla società contemporanea, assieme al pensiero delle sue cause e delle responsabilità di chi vive – le “cose taciute” che bisogna invece scoperchiare. Schiudere questo spazio abitato da ciò che il presente ha rimosso, scegliendo di volta in volta le modalità e i tempi («Varia la tua chiave, varia la parola / cui è concesso volteggiare coi fiocchi», ibid.), costituisce dunque, per lui, la missione del poeta.  

Non gli sfugge, tuttavia, la difficoltà del compito. Egli riconosce, non senza una punta di amarezza, che anche l’impegno dell’artista è instabile, perché quando la vita lusinga con la sua brezza diventa difficile vigilare, con la poesia, su quella “neve” che se ne sta sospesa in attesa di essere ricordata («A seconda del vento che via ti spinge / s’aggruma attorno alla parola la neve», ibid.). Ma la sua parola più importante, su questo tema, è detta. Nel muovere verso una nuova soglia non si dovrà mai, scrive, «dividere / il sì dal no» (Parla anche tu, ivi, p. 231): ovvero separare, nel presente, la vitalità dal ricordo, la luce del futuro dall’ombra dal quale chiamano i morti. Che chiedono di essere ascoltati, anche quando i papaveri colorano i campi.

Illustrazione, campo di papaveri con cielo nuvoloso
Illustrazione di Anna-Maria Stefini.

A Beppe

Immagine di copertina: Illustrazione di Anna-Maria Stefini.

Condividi su: