donna di spalle di fronte ad una finestra.
Di quando scrivere viene difficile. Meccanismi cognitivi e sociali per cui, di fronte a fenomeni eccezionali, esprimersi attraverso la scrittura diventa complicato.

Qualche settimana fa abbiamo pubblicato un post che si potrebbe leggere come dichiarazione d’intenti ma anche come specifico posizionamento nei confronti dell’informazione in generale, e di quella che riguarda la guerra in Ucraina in particolare. Abbiamo fatto presente che scrivere, in queste settimane, risulta difficile. 

La difficoltà di cui parlavamo non è quella intrinseca all’atto di scrivere. Scrivere infatti, può risultare più o meno naturale a seconda di carattere, istruzione ed esercizio. Facevamo piuttosto riferimento ad un sentimento che accomuna chi già ha scelto la scrittura come strumento d’espressione. Si tratta quindi di una sorta di blocco dello scrittore collettivo

donna insonne in una camera disordinata.
Fotogramma dal film The Double Life of Veronique, Krzysztof Kieślowski (1991).

Scrivere è una forma di meta-cognizione, ovvero di pensiero che riflette su se stesso, si dà forma e fa delle proprie incongruenze spinta creativa. Quando non si trova modo di trasferire in parole la complessità dell’esperienza e non si riesce ad organizzare il pensiero in forma logica, la nostra capacità di scrivere vacilla e le contraddizioni del pensiero si fanno limitanti. Il blocco dello scrittore cela infatti la difficoltà che incontriamo nel cercare di mettere in ordine i pensieri sulla guerra, ma soprattutto su come dovremmo comportarci in quanto possibile veicolo d’informazione. Capire il blocco potrebbe aiutare, in primo luogo, a superarlo, e, in secondo luogo, a metterne in luce i meccanismi, che, allo stesso tempo, ci dicono qualcosa su di noi in quanto individui, sul nostro impegno in quanto collettivo e su ciò che tentiamo di fare, in quanto magazine di informazione lenta. 

L’educatore e accademico Mike Rose ha studiato a livello cognitivo i meccanismi che possono provocare il blocco dello scrittore: ovvero il seguire delle regole troppo rigide (ad esempio “ogni tesi deve essere sviluppata in tre punti”), l’imposizione di piani inflessibili (scrivere un determinato numero di parole in un determinato arco temporale) e l’essere acriticamente dedito a regole in contraddizione (come “finisci il primo paragrafo ed editalo prima di passare al secondo” e “fatti guidare dal flusso della scrittura”). L’ultimo punto – ovvero il tentativo di conciliare regole contraddittorie – sembra essere quello più rilevante per il discorso corrente. Da una parte, scrivere di altro rispetto a questa guerra sembra inappropriato in quanto irrilevante rispetto a qualcosa di tanto pervasivo. Dall’altra, scrivere di guerra significa appropriarsi dello spazio di chi è esperto in materia, e ciò è privo di senso. L’opposizione tra le due ci pone in una posizione ambigua, nella quale sembra tanto sbagliato scrivere quanto non scrivere di quello di cui ci occupiamo di solito.  

Un altro fattore di blocco potrebbe prendere le mosse dalla tensione tra teoria (lo scrivere di una determinata cosa) e azione (l’agire nei confronti della cosa stessa). L’accademica ed educatrice bell hooks (che ha scelto di rifiutare l’uso delle maiuscole per il suo nome), nella raccolta di saggi Insegnare a trasgredire evidenzia come spesso l’attivismo si proponga come anti teorico. In alcuni ambienti di attivismo, infatti, la teoria, se confrontata all’azione politica, viene collocata in posizione marginale nella gerarchia di pratiche sociali che si impegnano nell’attivare processi di cambiamento. L’effetto che la teoria e, per le funzioni del discorso, lo scrivere possono avere sul conflitto in Ucraina non è tangibile, e può apparire molto poco utile. L’impegno di hooks però consiste nel mostrare come l’educazione – in quanto aggregazione di teoria e azione – debba impegnarsi ad essere pratica di libertà e di liberazione collettiva. Nel momento in cui viene intesa come tale, la teoria non è scindibile dalla pratica, ma anzi, ne è principio e conseguenza. L’azione infatti – quando dettata da un pensiero sul mondo e sulla nostra volontà di cambiarlo (o mantenerlo come tale) – ha portata teorica. Allo stesso tempo, la teoria che non si impegna all’azione rimane astratta e accessibile a pochi. Hooks riflette, per esempio, sull’atto del definire. Abbiamo imparato che dare definizioni alle cose ci permette di comprenderle e analizzarle criticamente e a comunicare con gli altri. Nonostante ciò, le definizioni diventano strumento di potere quando imposte esclusivamente da chi viene riconosciuto come esperto: definire un concetto, in una certa misura, ne cristallizza l’interpretazione e ne limita le possibilità di applicazione. Quando si tratta di agire sul reale la teoria – e, per i nostri scopi, la scrittura – non deve dimenticare l’azione, e viceversa.

poltrona in camera vuota
Fotogramma dal film The Double Life of Veronique, Krzysztof Kieślowski (1991).

Sarebbe riduttivo poi ignorare – come fattore ultimo – il sostrato materiale di ciò che scriviamo, ovvero lo spazio virtuale. Informarsi online, ed in particolare sui social network, ci espone ad una mole, crudezza e velocità delle informazioni di guerra di cui mai prima avevamo fatto esperienza (ne parla Alessandro Sahebi nella sua ultima newsletter), e, allo stesso tempo, ci richiede di accettare che tali informazioni si alternino piuttosto facilmente con le più classiche dinamiche di product placement. La sorprendente adattabilità delle piattaforme nei rispetti dell’uno e dell’altro tipo di informazione, per quanto si possa essere anestetizzati nei confronti della pubblicità, finisce col suscitare un senso di disillusione rispetto alle piattaforme stesse. Allo stesso tempo, i social network – per come sono costruiti, ovvero per il ruolo centrale che essi conferiscono alla promozione dell’individualità – alimentano il bisogno di rendere pubblica la propria posizione, per quanto abbozzata o incerta. Nasce quindi un’ultima tensione irrisolvibile, ovvero quella tra il non apprezzare a pieno la gestione delle informazioni da parte dei social network e il sentire la necessità di prenderne parte

Per dissonanze cognitive, svalutazione del lavoro teorico e per sovrabbondanza e incoerenza di informazioni, scrivere diventa ogni giorno più complicato. Allo stesso tempo informarsi – e informare, quando questo rientri nelle nostre competenze – resta un dovere. La teoria, e quindi la parola scritta, hanno valore pratico e potenziale rivoluzionario. L’informazione fatta bene esiste e, nel momento in cui si impara a riconoscerla, risulta indubbiamente altro rispetto all’opinione funzionale solo all’espressione ego-riferita (“io sono questa cosa perché penso questa cosa”) e a qualsiasi forma di pubblicità. Continuiamo a metterla in pratica.

Nota: Le opinioni espresse nell’articolo sono solamente dell’autrice, e non riflettono necessariamente quelle di Echo Raffiche o di istituzioni a cui l’autrice è affiliata.

Immagine di copertina: Fotogramma dal film The Double Life of Veronique, Krzysztof Kieślowski (1991).

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