Echo Raffiche incontra Mattia Santori

Dialogo con l’ex leader delle Sardine sull’associazionismo e sulla nuova sinistra. «Dare rappresentanza è l’essenza di ogni forma di attivismo. E il Pd deve puntare sulla capillarità».

BOLOGNA Mattia Santori, 35 anni, durante l’esperienza delle Sardine amava ripetere che «chi fa cittadinanza attiva sta già facendo politica». Dall’ottobre 2021 è però anche lui un politico a tutti gli effetti, consigliere comunale a Bologna con delega a turismo, politiche giovanili, scambi culturali e grandi eventi. Le sue posizioni riguardo alla rifondazione del Partito Democratico e l’approccio schietto su molte questioni gli hanno attirato talvolta le critiche dei membri più ‘anziani’ del partito. Oggi, a pochi mesi dalla sfida alle primarie tra Stefano Bonaccini ed Elly Schlein, sostiene quest’ultima nella corsa alla segreteria. 
Lo abbiamo intervistato per parlare del ruolo delle associazioni nella vita delle comunità locali, di partecipazione politica giovanile e del futuro della sinistra italiana. 

Mattia, grazie per averci concesso questa intervista. Echo Raffiche è un’associazione culturale nata a luglio 2020 dalla necessità di molti di noi di crearsi uno spazio alternativo di espressione libera, per comunicare a un pubblico più esteso di quello delle nostre conoscenze personali ciò che avevamo appreso negli anni universitari. Lentamente, dalla sola attività di pubblicazione online siamo passati a organizzare eventi pubblici nella nostra città, Brescia, quando le istituzioni hanno cominciato a contattarci per condurre alcune iniziative in aree periferiche urbane. Tra queste, ti cito per esempio un ciclo di lezioni di giornalismo alle ragazze e ai ragazzi degli istituti superiori e uno di incontri sul tema della divulgazione del cambiamento climatico. Che opinione hai del significato e del ruolo, anche politico, di associazioni come la nostra nella vita di una città?

“Io parlo da Bologna, una città che vive di un grande patto sociale tra la politica, il terzo settore e la cittadinanza attiva, ma quello che io vedo, anche nel resto d’Italia, è che la qualità amministrativa e politica di una città o di un territorio è fortemente correlata alla qualità e all’energia che arrivano proprio dalla cittadinanza attiva, in qualsiasi forma. Penso per esempio a ciò che di solito si dice del sistema sanitario emiliano, ossia che è il fiore all’occhiello della sanità italiana: è vero, ma i nostri ospedali chiuderebbero se non ci fossero le associazioni con la loro rete di volontari. Ma lo vedo anche nel turismo, nello sport, in tutti i tipi di cura del territorio. Quello che noi Sardine all’epoca dicemmo, che “chi fa cittadinanza attiva fa politica”, fu sicuramente una semplificazione, ma conteneva una verità. E infatti noi dimostrammo che se la cittadinanza si organizza e scende in campo per rivendicare un’idea di qualità e di dignità della politica, può avere un’influenza concreta. Noi l’abbiamo avuta, come conferma il fatto che tutti gli esperti sostengono che avemmo un impatto elettorale decisivo – e si sa che l’impatto elettorale è il culmine della mobilitazione politica. Certo, non è sempre facile legare la cittadinanza attiva e il terzo settore alla politica amministrativa ed elettorale come è successo con le Sardine: è una magia che accade poche volte e un’unica maniera non si è ancora trovata. Associazioni come Echo Raffiche sono sicuramente grandissime alleate politiche per l’amministrazione di una città e per un territorio, e si potrebbe quasi dire che, se non ci foste, la politica dovrebbe inventarvi – ma d’altronde l’associazionismo in vitro, com’è noto, non si fa.”

Come tu sai bene, cercare di coinvolgere una realtà locale può essere talvolta esaltante e gratificante, più spesso complicato e frustrante. Non sempre, poi, la sola qualità di una proposta basta a determinare l’esito positivo della stessa. Secondo te, quali sono le modalità che possono essere adottate per movimentare dal basso in maniera efficace?

“A mio parere l’associazione combatte con le stesse questioni della politica nel momento in cui si pone l’obiettivo di rappresentare. Io lo dico sempre, la politica, che oggi è il mio mestiere, è proprio questo: rappresentare qualcuno all’interno delle istituzioni e del dibattito politico. Però, se si osserva bene, è la stessa cosa che fanno le associazioni: nella misura in cui rappresentano un bisogno, delle persone che non hanno modo di organizzarsi o un tema particolare, allora verranno riconosciute e legittimate. Un’associazione vive della capacità di aggregare persone, e in questo è molto simile a realtà tipiche delle nostre comunità come le parrocchie o i partiti quando sono ben radicati in un territorio. In fondo tutte queste forme di aggregazione hanno nel proprio DNA il dovere di unire persone e di coinvolgerle attivamente nei loro luoghi. Bisogna quindi, secondo me, trovare delle azioni o dei temi che sappiano unire ed essere rappresentativi. Nella mia esperienza ho imparato che quando un’associazione nasce fortemente legata al territorio, allora possiede già questa dimensione di aggregazione, soprattutto quando la sua attività ruota attorno a un bene comune, anche molto semplice o concreto, come può essere un campetto di quartiere o qualsiasi altra cosa fruibile quotidianamente dai cittadini. Su tematiche più complesse l’aspetto divulgativo è sicuramente meno facile, però pensiamo a quanta gente oggi è in cerca di approfondimento, scoperta, formazione o discussione sulle più svariate questioni del mondo in cui viviamo: se punto su questo, magari non aggregherò attorno al territorio, al quartiere o all’isolato in cui abito, ma lo farò attorno alla qualità dei temi, se ovviamente sarò in grado di offrirla. Poi fortunatamente in Italia l’offerta dell’associazionismo è molto ampia, cosa che innesca una concorrenza positiva, sana, che spinge a elevare la qualità della propria proposta o a battere nuove strade per arrivare là dove altri ancora non sono ancora arrivati.”

Manifestanti del movimento delle Sardine in piazza nel 2019
Una manifestazione delle Sardine nel 2019 a Torino

Il nostro progetto è nato quando alcuni di noi si sono resi conto che non esisteva un luogo dove potersi confrontare con persone della propria generazione rispetto a temi che ci sembra non trovino adeguato spazio nei discorsi pubblici, anche politici: la salute mentale, l’ansia legata al futuro e ai modelli di realizzazione individuale imposti dalla nostra società, le problematiche del mondo del lavoro… In generale, si ha quasi la sensazione che la realtà vissuta quotidianamente da noi giovani rappresenti, in Italia, una sorta di mondo sommerso. Percepisci anche tu questo distacco da temi come quelli citati? E non hai anche tu l’impressione che molto spesso il lavoro da fare per noi giovani quando ci associamo sia soprattutto quello di decostruire un’immagine pubblica distorta della nostra realtà e del modo in cui la interpretiamo? Qui mi vengono in mente, per esempio, le vicissitudini a cui sei andato incontro nelle tue campagne per la liberalizzazione delle droghe leggere, forse il tema su cui la banalizzazione del mondo giovanile si attua nella maniera più cialtrona possibile.

“Innanzitutto credo che si debba partire dal presupposto che l’Italia è un Paese molto gerontocratico, che non solo ha un’età media molto alta, ma anche un potere a cui certe età sono fortemente aggrappate. Quella italiana è inoltre una società molto gerarchica, in cui chi ha costruito con fatica la propria nicchia di potere difficilmente o quasi mai è disposto a cederla. In questo quadro, o i giovani si comportano come vogliono i vecchi oppure, quando escono dal conservatorismo degli adulti con atti di manifestazione del dissenso o del proprio disagio, allora gli si dà subito dei rompicoglioni e si cominciano a sentire cose come «hanno sbagliato il metodo» – come è successo a me quando mi sono autodenunciato per la coltivazione domestica di cannabis e si è alzato un coro di: «Santori ha sbagliato, l’ha detto male», «il metodo non è corretto, ma il messaggio sì». Ma cosa vuol dire? Se è passato il messaggio, evidentemente anche il metodo era valido. Salvo poche persone, non c’è mai un riconoscimento vero. Tuttavia, credo anche che vada smentita l’idea così diffusa che la politica non ascolti i giovani. Per come la vedo io, la cittadinanza e la politica sono due componenti di cui i giovani stessi fanno parte, per cui rifuggo un po’ l’opinione secondo cui questi rappresentino una categoria a sé stante; anzi, per me sono dei cittadini tanto quanto dei pensionati. Posso scusare l’adolescente del liceo se se ne sta un po’ sulle sue, dal momento che ha meno mezzi e manca del diritto di voto, ma un ventenne, se vuole influire, può già farlo: può votare, può candidarsi, può fondare un gruppo, un’associazione, un movimento – addirittura un partito.” 

Vorrei ricollegarmi all’ultima cosa che hai detto. Effettivamente, l’altra faccia della medaglia del rapporto tra la politica e i giovani è che molto spesso si ha la sensazione che questi non si sentano rappresentati non tanto dai singoli partiti, ma anche – e forse soprattutto – dai mezzi e dai percorsi stessi della politica. Pochissimi nostri coetanei oggi scelgono di candidarsi in un partito o in una lista, anche tra quelli di noi con maggiore passione civile. Come giudichi questo fatto? È un limite della nostra generazione su cui fare autocritica o esprime invece a suo modo l’esigenza di sperimentare qualcosa di diverso, in un mondo profondamente cambiato rispetto a quello novecentesco a cui si rifanno i partiti politici tradizionali? Penso anche alla tua convinzione secondo cui il PD dovrebbe cambiare nome sostituendo il termine ‘partito’, per te anacronistico, con ‘comunità’.

“È chiaro che qui entra in gioco il tema dei temi del nostro tempo, ossia quello di una crisi democratica che non è tanto una crisi di post-fascismo, ma una vera e propria crisi di sistema, nel senso che è la struttura stessa dei processi democratici, da cui deriva l’organizzazione politica partitica, ad essere in seria difficoltà. Lo è perché non funziona, ma anche perché non appassiona e non attrae. Faccio un esempio. Quando io vado in consiglio comunale il lunedì, onestamente, mi rompo i coglioni: la seduta scorre e non si decide niente, sembra di non avere nessun tipo di influenza decisionale, eccetera. Ci sono tutte le ritualità e i burocratismi della macchina amministrativa, non sempre digeribili. Tuttavia, mi sento di dire che esiste anche un aspetto positivo. Nelle commissioni consiliari di una città si possono imparare tantissime cose, al contrario dell’opinione che solitamente se ne ha. Per quello che ho vissuto io in questo mio primo anno di mandato dentro le istituzioni bolognesi, posso dire che la parte consiliare pura è certamente faticosa, pigi dei bottoni e non sembra di vedere un gran cambiamento; ma poi c’è anche la parte amministrativa –  che io per fortuna ho, con le mie deleghe –, e che ti permette di influire e di cambiare concretamente le cose. È un’attività anch’essa faticosa, lenta, ma che almeno ti fa sentire di avere la capacità reale di cambiare le cose. Anche il lavoro nelle commissioni consiliari è formativo: ti dà infatti una visione sulla città e su ciò che vi accade che difficilmente potresti ottenere. Noi a Bologna nelle commissioni riceviamo tutti i giorni – tranne il martedì in cui non sono convocate – delle informazioni fondamentali, perché sono i consiglieri a convocarle quando recepiscono news su temi di attualità. Per cui, rispetto a quanto si diceva sui giovani che non entrano in politica, bisogna tenere presente che buttarsi nello spazio politico è un po’ come entrare in un club speciale – non esclusivo, però complicato. E come tutti i giochi complicati, se vi prendi parte hai bisogno di qualcuno che te lo spieghi. Occorre coinvolgere, trasmettere le proprie conoscenze e la propria passione. È per questo che io rivendico, dalle Sardine in poi, la necessità e l’importanza dell’invito. L’invito è una questione fondamentale, se si dice soltanto «vieni a votare una volta ogni cinque anni», «vieni ad assistere al consiglio comunale», non si coinvolgerà mai. Ben diverso è dire: «c’è uno step intermedio, perché non provi a scoprilo?». La mia prima associazione, di cui sono stato presidente, è nata perché il presidente del quartiere in cui io ed altri organizzavamo un torneo di basket ci ha proposto di diventare un’associazione, per poter essere coinvolti di più nel tessuto sociale della zona. Io ho imparato a fare politica così, perché c’è stato qualcuno che mi ha elevato. È per questo che io dico sempre che i due cardini dell’esperienza politica attiva devono essere rappresentanza ed elevazione: rappresentanza in primis, perché è il lavoro del politico, ma poi si deve anche portare un po’ più ‘su’ la cittadinanza, spiegare ai cittadini come diventare a loro volta rappresentanti.”

Nel gennaio 2020 Pierluigi Bersani, riferendosi proprio alla mobilitazione delle Sardine, definì l’Emilia-Romagna «la sala macchine del riformismo italiano»: quasi tre anni dopo, il futuro del centrosinistra passa ancora da lì, con la sfida alla segreteria Pd tra Bonaccini e la sua ex vicepresidente Schlein, che tu hai dichiarato di sostenere. Sia tu che Schlein indicate spesso nella giunta bolognese di Matteo Lepore il prototipo di un’esperienza di governo capace di impegnarsi sui grandi temi che la sinistra deve tornare a fare propri (il lavoro, le disuguaglianze, i diritti). Non credi, però, che in questo possa celarsi un’insidia, nella misura in cui, interpretando la politica nazionale dal punto di vista di quella locale, si rischi di cadere in un’illusione di prospettiva, prendendo l’amministrazione di una città e di una regione progressiste quali Bologna e l’Emilia-Romagna come modello per l’Italia intera? In fondo, il problema di come trasferire in ambito nazionale il credito storicamente posseduto a livello locale è da sempre la questione delle questioni per il Pd.

“Questo rischio, ovviamente, c’è. La sfida è quella di non raccontare il modello emiliano, ma il progetto politico. Quando con le Sardine parlavo della proposta politica di Bonaccini o quando oggi parlo di quella del sindaco di Bologna Lepore, è sempre al progetto politico che mi riferivo e mi riferisco, perché, alla fine, è a quello che ho aderito. Questo, dunque, è il tema. Io non credo che tutta l’Italia debba diventare come l’Emilia e fare proprio il modello politico e amministrativo di quest’ultima, perché non è possibile, ogni regione ha le sue specificità. Certamente tante cose funzionano, e la qualità amministrativa della giunta di Bonaccini e Schlein è fuori discussione, come lo è anche quella della giunta di Bologna. Però è sempre sul progetto che bisogna concentrarsi. Quelli di Stefano Bonaccini e di Matteo Lepore avevano caratteristiche simili, entrambi cercavano di allargare il campo, unendo delle realtà politiche simili, progressiste o comunque di centrosinistra, ognuna a suo modo e ognuna in base al territorio che aveva: per cui Bonaccini aveva con sé anche Italia Viva e Azione, però riconoscendoli una marginalità, senza che comandassero, perché a comandare era il suo progetto, in cui la componente Pd era più forte. Lepore a Bologna è riuscito a tessere un’alleanza più orientata a sinistra, ma la sostanza è uguale, conta il progetto a cui insieme si è aderito. A me piacerebbe che questo modello fosse applicato anche a livello italiano, per cui, da una parte, non si mettono veti, però, dall’altra, uno come Calenda, per dire, non può dettare le condizioni con il 6% di Azione. Si tratta di un tema politico: non bisogna illudersi che qualcuno valga di più solo perché fa la voce grossa, così non si va da nessuna parte. È questo che io credo possa essere esportato al di fuori dei confini emiliani. Poi qui in Emilia-Romagna c’è chiaramente anche un’energia positiva, nonché maggiore fiducia verso la politica rispetto ad altri territori. Questo della fiducia è d’altronde un altro grosso tema, sul quale le altre regioni – perlomeno dove questa non c’è – dovrebbero interrogarsi: penso non solo alle regioni del Sud, ma anche al Friuli, alla Liguria, al Veneto, territori dove c’è un distacco vero dei cittadini dalle istituzioni.”

Mattia Santori in una sede del Partito Democratico
Mattia Santori in una sede del Partito Democratico

Tu hai da pochissimo preso la tessera del Pd, giusto?

“Sì. Il motivo per cui ho aspettato così tanto a fare questo passo è che adesso so che dentro il partito ci sono delle persone che mi faranno da punti di riferimento e che ne entreranno altre con cui sarò in sintonia. Io credo che l’importante sia sempre di non entrare da soli, perché la simpatia è importantissima nell’attività politica, come anche nel volontariato o nell’associazionismo. Se si entra in un circolo di partito da ultimo arrivato, con persone con cui non ci si trova o strutture in cui non ci si riconosce, non va bene, si dura un giorno. Un’altra cosa è entrare con un gruppo di amici o inserirsi in un sistema con cui hai già dei punti di contatto, dove ci sono persone che fanno cose che ti appartengono.”

Sia tu che Schlein avete posizioni decisamente più radicali di quelle sostenute tradizionalmente dal Partito Democratico e, in più, su alcuni temi, come l’ecologia, i diritti civili, la lotta contro lo sfruttamento del lavoro digitale, esprimete posizioni molto popolari tra i giovani italiani, ma che raramente hanno trovato spazio tra i partiti con ambizioni di governo. Tanti esuli o senza patria politica, quindi, guardano a Schlein con speranza o almeno simpatia. La domanda che viene spontanea è però questa: “perché, allora, proprio il Pd”? Non c’è il pericolo che tutte queste energie e queste idee, una volta indirizzate verso il Partito Democratico, vadano alla fine sprecate e che, come tu hai scritto in un post su Facebook del luglio di quest’anno, «il progressismo della base» finisca «annacquato dall’equilibrismo della dirigenza» o, peggio, distrutto dal gioco cinico delle correnti?

La risposta è molto semplice. I compromessi in politica esistono: più sali di livello, e quindi più allarghi la platea, più dovrai farne. Per cui è impensabile, a destra come a sinistra, che a livello nazionale non si debbano fare dei compromessi di idee, di posizione, di territori diversi. A livello locale, di compromessi ce ne sono meno, perché siamo più simili e gli interessi sono più specifici rispetto ad un’alleanza nazionale. La portata del compromesso va quindi considerata. Quando parlo di correnti che annacquano il progressismo della base mi riferisco alla struttura del partito, non al nome.”

In un’intervista recente, Schlein ha ammesso la difficoltà che il Partito Democratico potrebbe incontrare, in questa legislatura, nel fare opposizione, vista la crisi di credibilità di cui soffre, dopo i molti anni al governo. In che modo pensi che sia possibile recuperarla? Magari con una proposta dirompente, come è stato il reddito di cittadinanza per i 5 Stelle?

“Ci possono essere tanti modi, in primo luogo però bisogna considerare che il Pd al momento non ha una leadership: una volta eletto/a un/a segretario/a, cambierà anche la percezione nei confronti del Partito Democratico. È chiaro che a quel punto il partito avrà un portavoce, che ne spiegherà plasticamente le intenzioni, come interverrà, chi vorrà rappresentare. Per me – ma ognuno ha la sua idea – la grande sfida per il Pd è la capillarità: nel momento in cui si ha qualcosa che nessuno ha in Italia, ovvero una capillarità di circoli sul territorio, questa presenza sui luoghi viene organizzata e restituisce qualcosa mandando un messaggio specifico. Pensiamo per esempio ai banchetti: perché li si deve fare solo in vista delle elezioni? Se si ha un tema da proporre, si attiva un rete capillare che da Sud a Nord ti presenta sul territorio una proposta, una tematica, una protesta. È una cosa che faceva anche Fratelli d’Italia – e sono quattro gatti –, non vedo perché non possa farlo anche il Pd. E poi, più gli iscritti al partito stanno bene, sentendosi attivi e protagonisti, più sarà per loro facile partecipare. La grande forza del Pd oggi sono gli iscritti, i militanti semplici, che hanno una rete sociale ampia, tale per cui, nel momento in cui si sentono di parlare bene del Pd, già fanno un’operazione di passaparola e di immagine molto forte. Di temi specifici di cui parlare ce ne sarebbero tanti: l’importante è che, sia che vinca Schlein sia che vinca Bonaccini, se ne scelgano alcuni tra quelli più rappresentativi delle loro rispettive mozioni e li si portino avanti, per davvero però. Non che li si scriva su Facebook e poi finita lì, perché questo, ovviamente, non basta. Noi Sardine, quando abbiamo smesso di stare nelle piazze, abbiamo dovuto per forza di cose stare sul web e così abbiamo perso moltissimo della nostra carica di trasformazione della società.”

Elly Schlein durante un comizio della campagna elettorale del Pd per le politiche 2022
Elly Schlein, durante la manifestazione di apertura della campagna elettorale del PD romano, Roma 6 settembre 2022. ANSA/FABIO FRUSTACI

In chiusura poi vorrei tornare sul tema delle piazze. Prima però ti chiedo ancora una cosa. Gli ultimi sondaggi danno Bonaccini leggermente in vantaggio su Schlein. Un fatto che impressiona è come il primo abbia il sostegno di gran parte degli amministratori locali e dei sindaci dei grandi capoluoghi, soprattutto del Centro e del Nord (anche del sindaco di Brescia, Emilio Del Bono): posto che Bonaccini è un bravo amministratore e un politico di indubbio valore, non ti colpisce però che così tanti sindaci Pd non sostengano Schlein, la quale invece ha la simpatia e il supporto, come detto, di tanti giovani? Credi forse che questo possa essere il sintomo del fatto che le amministrazioni locali di centrosinistra, al di là delle parole di comodo, non siano in grado – o peggio, non vogliano – cogliere il desiderio di cambiamento della realtà giovanile e le sue necessità? 

Non credo sia questa la ragione. Purtroppo, come si sa, i politici si muovono molto pensando alle loro sedie. Per cui la preoccupazione maggiore di un politico che è già dentro il partito o che ha già una carica in un’istituzione spesso non è il bene del Paese o di una città, ma è che fine farà lui nel nuovo Pd, in cui gli equilibri e le gerarchie potrebbero mutare. Adesso la Segreteria cambia e molti stanno facendo proprio questo calcolo. La mozione di Bonaccini offre più garanzie perché è data per vincitrice e di conseguenza tanti tendono a salire su quel carro lì. Io preferisco sostenere la rigenerazione del partito e quindi scelgo Elly: non perché su tutte le cose sia d’accordo con lei o perché sia contro Bonaccini, ma perché la sento, concretamente, più vicina a ciò che io credo sia necessario al Pd, ossia la rigenerazione. Se pensassi al mio tornaconto personale, starei con Bonaccini – e non è che non mi abbia chiesto di sostenerlo. Sono proprio scale di importanza e di valore diverse: il proprio utile o quello del Pd.”

C’è anche chi, come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, minaccia di uscire dal partito in caso di vittoria di Schlein.

“È un modo un po’ novecentesco di far politica da accoliti delle singole mozioni che, a mio parere, non serve a nulla.”

Per concludere, veniamo alla questione della mobilitazione vera e propria. Tu hai già detto tante volte di considerare conclusa l’esperienza delle Sardine. Tuttavia, siamo alle prese con l’Esecutivo più a destra della storia repubblicana, che ha già cominciato a picconare importanti misure sociali come il reddito di cittadinanza, mentre i diritti civili sono di nuovo in stallo fino a data da destinarsi. Di fronte a ciò, non ti sembra che ci sia troppo silenzio? Schlein parla di una sinistra che si riformerà con un’«onda di partecipazione dal basso»: di quest’onda, però, finora non c’è traccia. Non più da Sardine, va bene, ma non sarebbe il caso di tornare a riempire le piazze? 

“Non sono così d’accordo con l’idea che le piazze non si stiano attivando. Alla fine tra sindacati, centri sociali, i Cinque Stelle e lo stesso Pd, un ritorno in piazza si comincia a intravedere. Poi secondo me adesso non si devono neanche bruciare le tappe. In questo momento il Partito Democratico è in una fase importantissima di riflessione e di rigenerazione, anche del potere interno, e quindi ci sta che ci sia una fase più introspettiva per così dire. Io credo che ora sia più utile rigenerare il partito che conquistare le piazze, anche perché – detta in maniera un po’ cinica e brutale – il governo Meloni si trova nella classica ‘luna di miele’ che tutti i governi hanno avuto, e al momento è difficile intaccarla. Ovviamente lo si critica sulle sciocchezze che fanno, sul POS, sui rave e così via, però non è adesso che è possibile ribaltare un sistema che si è appena consolidato. Trovo anzi molto strategico il fatto che il Pd usi questo periodo idilliaco del governo per farsi una psicoanalisi interna, in attesa di uscire poi in primavera, dopo le primarie e le elezioni regionali, con una nuova leadership e da lì cominciare a rosicchiare consenso ai partiti del governo. I processi in politica sono lunghi, lo dimostra anche l’ascesa al governo di Fratelli d’Italia, che è durata dieci anni. Ad oggi le istanze per scendere in piazza ci sono e vengono assolte nella chiamata in piazza di vari organismi, settori e ambiti sociali. Nel momento in cui ci sarà da fare una mobilitazione generale io spero che il Partito democratico si sia già rigenerato e che, quindi, possa dare un impulso decisivo. Certo, ad oggi non so quanta gente risponderebbe a una chiamata del Pd, poiché, come detto, c’è un grande problema di ricostruzione di credibilità. È un tema che dovremo affrontare.”

Nota: ringrazio Francesco Fanzani per le dritte giornalistiche, Ludovica Schiavone per l’aiuto nella preparazione delle domande, Giulia Ursini per i pareri critici. Last but not least, Margherita Bicocchi per la revisione e Anna Maria Stefini per la bellissima illustrazione. 

Immagine di copertina: Illustrazione di Anna Maria Stefini

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