
Francesca Cordone, classe 1995, cantante per vocazione, spalleggiata da una ciurma tutta made in Brescia: Francesco Regazzoli, inguaribile chitarrista d’annata 1995, Ludovico Di Meco, classe 1991, bassista e mentore spirituale del gruppo, e un percussionista tutto d’un pezzo alla stregua di Jury Suardi, classe 1992.
«C’è chi dice alt-rock, chi parla di indie e chi invece si limita a definirla musica “strana”. Diciamo che cerchiamo di fare della musica suonata; amiamo i suoni veraci, i pedali e i suoni in analogico» così si definiscono i Giuditta, giovane band bresciana nata agli albori del 2020. Voce, chitarra, basso e batteria: quattro musicisti reduci da percorsi diversi che, persuasi dal titanismo di Giuditta, hanno trovato asilo sotto uno stesso nome.

partendo da sinistra, Jury Suardi, Francesco Regazzoli, Francesca Cordone e Ludovico Di Meco
Ma chi è Giuditta? Perché il gruppo ha scelto di chiamarsi così? Il primo riferimento di cui parla la band è quello di Giuditta nell’Antico Testamento, la giovane eroina che, in difesa del proprio popolo, avrebbe sedotto e decapitato il generale assiro Oloferne.
Nella fredda Vienna del 1901, il soggetto biblico ritorna nella celebre Giuditta I di Gustav Klimt, un olio su tela che la raffigura frontalmente, con il capo leggermente reclinato indietro. Nonostante gli occhi della donna siano semichiusi e si intravedano a stento le iridi azzurre, lo sguardo rimane fisso sullo spettatore, quasi a volerlo chiamare in causa dentro la narrazione.
«Giuditta non viene raffigurata nell’atto della decapitazione, ma nell’istante appena successivo» ci spiega il gruppo: «È lei la protagonista della sua storia, una donna emancipata che sfida e chiede di essere sfidata. È il nostro risveglio, un’alba che ci ricorda di sventolare alta la testa di Oloferne, di sentirci implicati nel racconto della nostra società».
Non a caso, anche il logo del gruppo immortala la testa di Oloferne retta dalla mano di Giuditta. Una scelta dettata da un curioso aneddoto premonitore, di cui ci viene svelato il retroscena: «Mentre Ludovico stava cercando immagini a cui rifarsi per il logo, si è imbattuto in una statua di Giuditta sita nel Duomo di Cremona. Un’opera che, solo dopo, si è scoperto essere di Antonio Calegari, guarda caso un artista bresciano. Tutt’oggi la viviamo come una simpatica benedizione del fato».

Dal festival degli assolati street food di Eatinero, tra Padenghe del Garda, Castel Mella e Cremona, fino al palco del Darsena Pop di Palazzolo sull’Oglio, i Giuditta sono poi approdati negli studi di Radio Popolare. Un’ esperienza il cui ricordo, a distanza di mesi, desta ancora grande emozione: «L’ultimo live che abbiamo fatto è stato quello a Radio Popolare, presso l’Auditorium Demetrio Stratos. Un pomeriggio che non dimenticheremo facilmente».
Proprio a Radio Popolare il gruppo ha avuto modo di registrare in presa diretta le tracce di tre importanti pezzi, ora disponibili su Spotify (clicca qui per ascoltarle) e sulle principali piattaforme di riproduzione.
«È stata un’occasione unica» racconta la band: «abbiamo avuto al nostro fianco dei collaboratori non solo professionali, ma davvero accoglienti e di grande sostegno. Sono state di fatto le nostre prime pubblicazioni, e uscire per la prima volta con dei pezzi live è stata una vera scommessa, in primis con noi stessi».

Tutti e tre i brani in questione, Caro mio Giuda, Pece e Corri qui, sono stati scritti dalla cantante del gruppo, Francesca, e arrangiati musicalmente da Ludovico. Si tratta di un lavoro fatto di immagini, spesso ricalcate dal vissuto della cantante o di chi la circonda; è una scrittura intima ma che, come ribadiscono i suoi portavoce, aspira a parlare a tutti indistintamente.
«Caro mio Giuda è un urlo. Il volto di chi lo pronuncia è di facile deduzione, ma volutamente non viene mai nominato» ci spiegano: «Abbiamo cercato di disegnare un “carro del vincitore”, da cui tutto appare differente e su cui non tutti, forse, saremmo disposti a salire».
Perché la canzone si rivolge a Giuda? C’è una redenzione del personaggio? «Giuda e il suo interlocutore sono due figure paradossalmente molto simili e affini, due uomini che hanno caratterizzato la storia del loro tempo, chi da vincitore, chi da vinto, ma sempre secondo un punto di vista limitato».
Anche Giuda infatti potrebbe redimersi vincitore, ma a una sola condizione: chi indossa la corona deve essere disposto a scendere dalla croce, abbandonare il peso della propria storia, e costituirsi semplice uomo.

È interessante notare, soffermandosi invece sui testi, come tutte le trame si snodino attorno al concetto di messa in relazione.
Entrano in gioco, infatti, tre diverse modalità di relazione: quella con ciò che è al di fuori di sé, ben espressa in Caro Mio Giuda, la relazione con cui si sceglie di convivere, come nelle precipitose strofe di Corri Qui, e infine la relazione con ciò che risiede in sé stessi, entro le mura della camera buia di Pece.
Già il titolo di quest’ultimo pezzo, Pece, diviene metafora dell’intero brano: «una sostanza così nera che non solo non permette di guardarci attraverso, ma che non lascia nemmeno riflettere la luce».
A detta dei Giuditta, il tema insistito della “discesa” rimanderebbe quindi a un secolo lontano della vita: «Pece racconta il viaggio interiore dell’individuo, un percorso a ritroso che attinge alla sua parte più buia e antica, quella confinata entro le mura scrostate dell’infanzia. È una sorta di catabasi».

Infine, in Corri qui riecheggia nuovamente una chiamata. Un inno all’Amore oblativo, quello per un amico, per un amante o per un familiare. «Un Amore senza genere» come lo intendono i Giuditta: «Un sentimento che legittima le parti a sentirsi realizzate e libere di essere sé stesse. Un luogo dove riappropriarsi della propria forma e rinascere re».
In questo incessante flusso metamorfico di “nascita”, “rinascita” e “morte”, nonostante i deittici spazio-temporali evanescenti, il Qui da me trova un corrispettivo altrove nello spazio.
«Lontano non è una collocazione priva di tempo e di luogo» chiarisce infatti il gruppo: «Corri qui indica un luogo ben preciso, che è esattamente accanto alla persona che canta e da nessun’altra parte; chiunque può cantare questa canzone, fare sue queste parole e riconoscere il proprio luogo in questo posto».
«Nascere re, un’immagine per definizione alta e realizzata, presuppone l’esistenza di un luogo di fiducia, in cui poter essere davvero sé stessi nel modo più autentico possibile» proseguono: «Non importa chi tu sia e a chi tu stia rivolgendo queste parole: solo se sarai in quel preciso luogo potrai rinascere te stesso». Quale redenzione migliore per Giuda?

«Senza dubbio Caro mio Giuda è il pezzo che più ci rappresenta. È una vera e propria dichiarazione di intenti, sia musicale che concettuale, oltre a essere la prima canzone in cui abbiamo ciecamente creduto.» concludono poi: «L’intro di questo pezzo, che non è mai stata registrata, è totalmente improvvisata. È forse l’unico momento in cui, dal vivo, ognuno di noi si presenta al pubblico soltanto con lo strumento che suona. Caro Mio Giuda ha quella capacità di prenderti a calci e sbatterti fuori dalla porta per costringerti a guardarti meglio. Noi sul palco ci siamo saliti così».
E ce lo può testimoniare un’intera platea bresciana di amici, parenti e fan affezionati, i cosiddetti “giuditters”, che da mesi ormai sostengono e incoraggiano il temerario lavoro di queste giovani fenici.
Potrà mai un Vangelo cantato da un uomo in croce abbattere uno stigma? A chi toccherà salire sul carro dei vincitori? La musica saprà redimerci dal verdetto della storia? Non rimane che lasciarsi ammaliare dallo sguardo di Giuditta e accoglierne finalmente il compromesso.
Per saperne di più sui Giuditta e sul loro percorso musicale, trovate qui l’intervista di Radio Popolare.
Per rimanere aggiornati sui prossimi appuntamenti o per contattarli, li trovate anche su Instagram @giuditta.official
Immagine di copertina: Foto a cura di Francesca Cordone