
Abbiamo incontrato Greta Tosoni, la sex coach, divulgatrice, queer educator e co-fondatrice di Virgyn&Martyr, un caldo pomeriggio di Agosto, con la città svuotata e gli ultimi preparativi del Pride alle porte. Con lei abbiamo aperto un dialogo profondo sulle tematiche di genere, l’educazione alla sessualità e all’affettività, che abbiamo condensato in una lunga intervista, della quale questa è la parte conclusiva.
Spesso in famiglia si incontrano molte chiusure. Invece voi con Brescia Pride avete fatto degli eventi di “famiglia aperta”: può la comunità colmare il vuoto comunicativo che può esserci a volte nelle famiglie biologiche?
Bellissima domanda. Infatti quella che si è creata al pranzo in famiglia è una situazione di convivialità da tipica famiglia italiana, ma composta da persone che non si conoscevano e che non appena si sono sedute al tavolo hanno subito cominciato a parlare come se si conoscessero. Si è creata una situazione non opprimente, in cui si poteva parlare di qualsiasi cosa senza paura di essere giudicati, come accade talvolta in famiglia. Questo ci fa ricordare che questo tipo di relazione dovrebbe essere la base naturale di tutti i nostri rapporti. L’accoglienza è questa sensazione che ti fa avvicinare alle persone senza però superare i loro limiti: si sta ognuno nella propria unicità, e questa è la cosa più bella. Più creiamo esempi di famiglie scelte ideali, più riusciamo a ricreare questi modelli.

Ti capita di sentire dello stigma sul tuo lavoro, che in fondo è ancora una professione inusuale?
Spesso sì. Più di tutto ho subito “ageismo”, la discriminazione legata all’età, insieme al fatto che vengo percepita come donna, anche se non mi ci identifico. C’è anche poi una situazione ambigua, perché il fatto che io sia giovane, con questo aspetto e tratti di queste cose mi fa sembrare “innocua”, fa sì che le persone si relazionino serenamente con me – cosa però che d’altra parte si tramuta in pregiudizi che percepisco, del tipo “chissà che sessualità vive una che si occupa di queste cose”. Mentre sul lavoro nello specifico, possono capitare situazioni strane al di fuori degli ambiti strettamente professionali. Ad esempio, se sono sul taxi e il tassista mi chiede che lavoro faccio, io prima analizzo la situazione, e valuto fino a dove mi posso spingere, quanto è sicuro per me espormi e cosa dire. Comincio dicendo che sono un’educatrice e poi vedo com’è la reazione, per capire quanto dire del mio lavoro. Oppure mi capita di dover giustificare davanti a professionisti laureati il mio percorso perché non comprende l’università, che in Italia ti dà una valenza diversa. Io ho un titolo di Educatrice sessuale e consulente sessuologo, preso alla «Società italiana di sessuologia e di educazione sessuale», e quello di Sex coach, preso prima di questo in Spagna, anche se devo dire che la mia formazione maggiore deriva da quello che c’è stato in mezzo: dal 2016 a oggi ho fatto pratica da autodidatta con corsi, confronti, letture – tutte cose che nessun pezzo di carta potrebbe giustificare ma che mi hanno dato moltissimo.

C’è dello stigma, ma per fortuna all’interno dell’ambiente in cui mi serve di più sta crescendo il rispetto per questo lavoro. Però a volte anche internamente c’è lo psicologo che crede che il sex coach sia una figura inutile che le ruba il lavoro: «ci siamo già noi» ti dicono. Ma secondo me a maggior ragione la presenza del sex coach permette allo psicologo di essere utilizzato al meglio, in primis perché se una persona viene da me e ha bisogno dello psicologo io la mando lì, e poi perché le nostre figure possono coesistere in un percorso: quasi tutti i miei clienti vanno dallo psicoterapeuta, ma vengono anche da me perché con i loro psicologi non possono parlare di certe cose o non in un determinato modo, e non possono così ricevere determinati stimoli che da me invece possono ricevere. Dal rapporto con la loro identità, alla costruzione della propria sessualità, è difficile ragionare di queste cose nello spazio di terapia, quindi è utile che ci sia un percorso parallelo. Il filo rosso del mio lavoro è aiutare le persone a stare bene in ambito sessuale e umano: se ti serve ascolto ti ascolto, se ti servono informazioni ti do informazioni. L’unica cosa che non do sono risposte, quelle devi trovarle tu: io non ho risposte per te, tu sai chi sei. Io per te ho le domande che potresti farti e sta a te trovare le risposte. Ognuno deve trovare il suo modo, non devo essere io a dire “fai così oppure così”.

Nel tuo lavoro di sex coach che tipo di persone incontri e com’è il rapporto con loro? E quali sono le difficoltà, se ci sono, quando persone eterosessuali maschi vengono da te a chiedere consigli? Il percorso di sex coach può aiutare a uscire da un’identità di genere che è stata così ingombrante nella storia?
È una riflessione giusta, anche perché ogni identità è unica e ha un percorso di costruzione e dei modelli a sé. Gli uomini eterosessuali non cercano spesso aiuto da me, probabilmente perché non si sentono a proprio agio per il fatto che io non sembro proprio un uomo eterosessuale [ride]. Però mi è capitato e solitamente sono state persone che venivano con umiltà, si facevano coraggio e provavano a dialogare con me. Alcuni solo per un incontro, altri invece hanno instaurato nel tempo un rapporto confidenziale, senza giudizi da parte mia. Mi è capitato addirittura di ragazzi etero che sono venuti da me dicendomi: «La mia ragazza ha un problema, quindi vengo io». E io dentro di me pensavo: “Okay…, vediamo, raccontami e poi decido io [ride]”. No scherzo, non ho un giudizio su questo, anche se io, da titolo, potrei occuparmi di più persone, ma non l’ho mai fatto. Sto aspettando il momento in cui mi sento pronta, perché dal mio punto di vista lo trovo più impegnativo.
Comunque, rispetto alla domanda sugli etero, credo che ci sia la possibilità di costruire quest’opportunità, nella costruzione dell’identità, nella messa in discussione dei ruoli, ecc.. Ma si dovrebbe anche poter creare un’occasione di confronto con qualcuno di simile o con altre identità maschili: in questo caso i gruppi hanno questa utilità, con una figura che modera e facilita e crei l’opportunità di un confronto aperto. Già questo creerebbe il cambiamento, ed è infatti una cosa che mi piacerebbe proporre a Brescia, anche se non è facile trovare gli uomini che moderano e facilitano.

Immagine di copertina: Greta Tosoni, a cura di Lorenzo Verga.