
In questi giorni diversi cinema hanno dato la possibilità di vedere in sala Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987), il film più famoso del regista tedesco Wim Wenders e una delle pellicole più iconiche della storia del cinema. Storia di due angeli che osservano la vita quotidiana di cittadini berlinesi a metà degli anni ’80, l’opera si distingue per una narrazione atipica e per un’estetica molto ricercata che la colloca al di fuori di un periodo storico preciso. Nonostante l’uso di un’ambientazione molto caratterizzante, il significato del film non è vincolato al solo contesto della Berlino divisa dal Muro. Come ribadito dallo stesso regista nel video che ha preceduto la proiezione della pellicola in sala, l’opera ambisce ad avere una portata universale.
Per quanto riguarda il lato più tecnico, l’estetica gioca un ruolo fondamentale nel caratterizzare l’opera. L’alternanza tra riprese in bianco e nero e riprese a colori, oltre a marcare la differenza tra la prospettiva eterna e immateriale degli angeli e quella temporale e materiale degli uomini, crea un contrasto tra due epoche diverse della storia del cinema. Mentre la scelta del bianco e nero contribuisce a creare un’atmosfera quasi da film d’epoca, le parti a colori restituiscono una sensazione di familiarità. Parte di questo risultato si deve sicuramente al lavoro dello storico direttore della fotografia Henri Alekan, che iniziò la propria carriera durante gli anni ’30 in Francia.

Anche l’uso della musica contribuisce a rendere vivido questo contrasto. La colonna sonora del compositore Jürgen Knieper, caratterizzata dall’uso dei cori, degli archi e dell’arpa, fa da tema portante per le figure angeliche e ha delle sonorità eteree, estranee all’ambientazione dell’opera. La scelta delle canzoni che compaiono in diverse scene chiave, invece, riporta lo spettatore a un contesto più contemporaneo (per l’epoca in cui il film venne realizzato). Ciò avviene grazie alla musica di band provenienti dalla scena post-punk e gothic rock, all’epoca tra le più in voga, come i Crime & the City Solution e i ben più noti Nick Cave and the Bad Seeds. L’atmosfera decadente di queste composizioni accompagna il clima desolante in cui si muovono i cittadini berlinesi, facendo così da contraltare alla musica di Knieper.
Come si può intuire già solo da questi elementi, il film è improntato su un forte contrasto dualistico, che però non si limita solo alla sola estetica, ma che caratterizza tutta la narrazione dell’opera: gioia e dolore, adulti e bambini, angeli e umani. Una parte rilevante della storia non è tanto dedicata allo svilupparsi di una trama, ma al mostrare la vita quotidiana di cittadini qualunque attraverso il punto di vista di due angeli, Damiel (Bruno Ganz) e Cassiel (Otto Sander). Grazie alla loro natura incorporea e alla loro capacità di ascoltare i pensieri degli uomini, queste due creature guidano il pubblico (facendo a loro volta da spettatori) attraverso una quotidianità in cui preoccupazione, delusione e disillusione sono i sentimenti preponderanti.

In contrasto con questa prospettiva pessimistica, troviamo i bambini, che sono ancora in grado di percepire gli angeli. L’importanza della loro figura è evidenziata dalle cantilene che Damiel intona più volte durante l’opera, a partire proprio dalla scena iniziale. Le sue parole mettono in risalto la capacità di meravigliarsi ed emozionarsi per ciò che viene generalmente ritenuto banale. È questa facoltà che gli adulti, afflitti dal tedio, hanno perso.
È Damiel, con una curiosità infantile, a guidare la narrazione. Dopo aver osservato Marion, una trapezista costretta ad abbandonare il proprio lavoro per il fallimento del suo circo, l’angelo decide di incarnarsi per poterla incontrare e provare finalmente quelle sensazioni umane che lo hanno sempre incuriosito, ma che nel corso della sua esistenza immateriale ha sempre potuto solo osservare. Damiel, finalmente dotato di un corpo fisico, fa da subito esperienza del dolore a causa di una ferita alla testa, ma la cosa che più suscita il suo stupore è il colore rosso del sangue. Ciò lo porta a rivolgere l’occhio al mondo e a scoprire i colori che non aveva mai visto in quanto creatura immateriale.

Attraverso la figura di Damiel, Wenders invita lo spettatore alla riscoperta di questo stupore che si perde quando si viene sopraffatti da una quotidianità banale, noiosa o addirittura dolorosa. Se supponiamo che l’angelo sia il portavoce del regista, possiamo dire che per lui questa capacità è la condizione necessaria per riuscire ad affrontare la vita di tutti i giorni. Non si deve intendere questo stupore in un’accezione buonista, ma come una forza vitale positiva che serve a bilanciare il dolore di cui inevitabilmente si fa esperienza. In poche parole, lo stupore non cancella il dolore, ma gli dà senso.
Per quanto questa breve analisi possa risultare riduttiva rispetto alla densità di contenuti del film, è chiaro che il tema della riscoperta dello stupore è la chiave di volta di tutto il film. Non solo, ma dà anche uno spunto per comprendere il punto di vista di Wenders su cosa caratterizzi le grandi opere d’arte. Non è un caso che il film si chiuda con una dedica a tre registi, François Truffaut, Yasujirō Ozu e Andrej Tarkovskij, riferendosi a loro come degli angeli scesi in terra proprio come Damiel. Per una comprensione più completa, non si può che rimandare alla visione del film, un classico perfettamente in grado di competere, per complessità ed estetica, con i grandi nomi che ha voluto tributare.
Immagine di copertina: Un frame de Il cielo sopra Berlino.