Il protagonista del film La Vie de bohème che, straiato sul letto, fissa il vuoto.

Il ricatto della partita iva: cronaca di un male borghese

Ho chiesto a quattro ventenni di parlarmi di lavoro e futuro, di autonomia e dipendenza. Mi hanno raccontato di precariato, individualismo e di un presente perenne.

Alcune situazioni sono talmente comuni da passare inosservate. Tra i 20 e i 30 anni può capitare di circondarsi di persone diverse e di aver un privilegio che verrà a mancare col passare degli anni, con la creazione dei nuclei familiari e il loro consolidarsi: si può ancora sbirciare, con sguardo non filtrato e crudo, nelle vite e nelle esperienze dellƏ altrƏ. Condividiamo case, uffici, spazi di studio, usciamo spesso, parliamo al telefono. A volte parliamo di lavoro, della discrepanza tra ciò che vorremmo fare e ciò che facciamo, di precarietà.

C’è un caso particolare di precarietà, estremamente diffuso ma poco rappresentato nel discorso pubblico: quello di 20/30enni con partita iva. Se non lo si è pronunciato con le proprie labbra, sarà capitato di sentire amichƏ che “hanno aperto partita iva”, che “apriranno partita iva” o che “hanno dovuto aprire partita iva”.

Nel 2021, circa 180 mila P.IVA sono state registrate da giovani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. Chi apre P.IVA è formalmente considerato “lavoratore autonomo”, ma nel caso dellƏ giovani italianƏ, come spesso accade, il livello teorico-formale è scisso da quello pratico-esperienziale: per moltƏ l’autonomia che la definizione di P.IVA implicherebbe cela una situazione di sfruttamento, sia di chi lavora, sia delle diciture legali. Ciò che è richiesto, o imposto, a moltƏ giovani professionistƏ è infatti assimilabile a ciò che si richiederebbe ad unƏ normale dipendente, privatƏ però di ogni beneficio che il lavoro subordinato prevedrebbe: ferie pagate, maternità e TFR, stabilità contrattuale e straordinari (vedi alcuni esempi agghiaccianti nell’ambito dell’architettura). Di fatto però non si ha una misura precisa di cosa significhi l’espressione “moltƏ giovani” in questo contesto. Imporre una situazione di lavoro subordinato ad un lavoratore autonomo con P.IVA, rientra in quella sfera dell’illegalità che ben conosciamo: non si potrebbe, ma si trova il modo. 

Il protagonista del film La Vie de bohème che sente un rumore e si alza
Scena da La Vie de bohème (1992), film diretto da Aki Kaurismäki.

Si parla di falsa P.IVA  o presunzione di lavoro subordinato quando una collaborazione a P.IVA dura più di 8 mesi per due anni consecutivi, quando al lavoratore viene assegnata una postazione fissa e degli orari e quando l’entrata percepita dalla collaborazione corrisponde almeno all’80% del guadagno del lavoratore nell’arco di due anni consecutivi. Ci sono però alcune deroghe, che sembrano pensate ad hoc per permettere questo tipo di situazione, di fatto ritenuta legale quando il lavoratore è iscritto ad un albo, quando la collaborazione include un percorso formativo, o quando il guadagno è superiore ai 18 mila euro anni (cifra che varia ogni anno). 

Questo articolo non si promette di smascherare i casi di presunto lavoro subordinato ma è anzi esplicitamente pensato per dare voce a chi – per cavilli burocratici bene o mal pensati – si trova a «vivere il peggio dei due mondi» (cit. di Sara, vedi sotto): l’avere la responsabilità fiscale del lavoratore autonomo, e quella morale del lavoratore dipendente. Ho fatto alcune domande a quattro amichƏ, che – protagonistƏ o meno – di queste realtà, mi hanno raccontato la loro esperienza. I nomi sono inventati per mantenere l’anonimato.

Che lavoro fai?

Sara lavora in uno studio legale a Milano, ha aperto la P.IVA nel 2022 a seguito dei 18 mesi di pratica forense, dice di non conoscere molte alternative per chi lavora nel settore.

Lodovico fa il social media manager per una agenzia di comunicazione di Milano. Di fatto lavora direttamente per 14 clienti, ma viene pagato in quanto collaboratore dell’agenzia a regime forfettario. A Lodovico è stata imposta l’apertura di P.IVA come condizione di lavoro.

Giovanni lavora a Milano e fa produzione di foto e video e copy writing. Ha aperto P.IVA quando ha iniziato a collaborare con la Regione Veneto. Crede che il sistema delle P.IVA con agevolazione fiscale per i giovani sia mal pensato e che perpetui quel paradigma di lavoro precario e competizione che contraddistingue la nostra generazione.

Tommaso è ora dipendente in uno studio di progettazione all’estero. Ha lavorato tra il 2018 e il 2019 presso un famoso studio di architettura di Brescia. Gli è stato consigliato di aprire P.IVA come collaboratore dello studio, pratica che di fatto veniva imposta a tutti i membri, se così si può dire, dello studio (composto di circa 15 collaboratori, nessun dipendente). 

Il protagonista del film La Vie de bohème che riceve un avviso di sfratto.
Scena da La Vie de bohème (1992), film diretto da Aki Kaurismäki.

Descrivi il tuo lavoro.

Sara lavora da più di 8 mesi nello stesso posto di lavoro, ha una sua postazione fissa, una scrivania ed un computer. Ha una chiave d’accesso al posto di lavoro. Spesso lavora oltre l’orario d’ufficio: «quando sono lenta a fare una cosa che va fatta, o quando quello sopra di me mi dice che qualcosa va finito entro stasera», ma non le servono permessi per assentarsi. Quando parla della sua condizione, menziona il fatto che «il tuo capo – che poi non è il tuo capo – ha comunque il coltello dalla parte del manico». La possibilità del «potermene andare domani», viene controbilanciata da un «mi potrebbero lasciare a casa domani». Sara è iscritta ad un albo e ogni sua entrata viene dallo studio legale di cui è collaboratrice: non ha ferie, potrebbe avere – per politica dell’ufficio – una maternità ridotta, ma non un TFR.

Allo stesso modo, Tommaso lavorava spesso fuori orario, non aveva alcuna altra entrata ma una postazione fissa con scrivania e computer personale, era iscritto all’ordine degli ingegneri. Se ha imparato qualcosa, l’ha fatto per esperienza diretta. 

Anche Lodovico mi ha fatto un discorso simile, apprezza la libertà di lavorare da casa, e – nonostante trovi tempo di dedicarsi ad altri progetti – il 90% delle sue entrate viene dall’agenzia di comunicazione con cui collabora. Mi dice «nessuno mi ha insegnato nulla». Lavora più di 50 ore a settimana, compreso il sabato e spesso qualche ora la domenica e alcune trasferte non pagate. 

Giovanni è quello che più di tutti si discosta dagli altri: lavora per vari clienti, ma di fatto il lavoro per cui gli è stato offerto di aprire P.IVA non è molto redditizio. La collaborazione è saltuaria, il che rende l’esperienza di Giovanni più o meno in linea con ciò che si aspetta da un giovane lavoratore autonomo. 

Ti senti limitatƏ? Ha senso pensarti tra 5 o dieci anni?

Sara non si sente particolarmente limitata al momento, tanto del suo tempo va nel lavoro, ma ha qualche flessibilità sugli orari, non fa esperienza di continuità né stabilità, ma se le augura per il futuro. Sa che, dopo le agevolazioni fiscali dei primi 5 anni, avrà molti costi da tenere in considerazione, tra iscrizioni all’ordine, commercialista e cassa. Dice che «vive un po’ il peggio dei due mondi». 

Lodovico non ha molti risparmi, fatica a mettere da parte quanto serve per pagare tasse e commercialista alla fine dell’anno, può accettare una retribuzione bassa perchè non ha un affitto da pagare: «ho 26 anni, non potrei sopravvivere se fossi fuori casa, questo è quanto». Vista la natura del suo lavoro, non ha la possibilità di ignorare le notifiche o i messaggi degli utenti, che arrivano a prescindere dall’orario «che sia un venerdì sera o una domenica mattina». Per Lodovico non ha senso pensarsi tra 5 o 10 anni.

Tommaso è della stessa idea, viveva la sua collaborazione con lo studio di architettura come un’esperienza temporanea, ma limitante a livello di tempo e sviluppo personale. Viveva da pendolare tra casa dei genitori e ufficio, di fatto non potendosi permetterei un affitto in città.

Giovanni prova ansia nei confronti del futuro, sa che per non compromettersi a livello artistico, ovvero per rimanere fedele al suo gusto, dovrà lavorare e produrre sempre di più. Quando sposta il focus dalla sua esperienza personale a quella generazionale, collettiva, dice di aver paura per la sua generazione, «una generazione di lavoratori scontenti, precari, con poca fiducia nel mercato, difficoltà nell’uscire di casa, comprar casa, aprire un’attività». Pensa che questo sistema di retribuzione rasenti l’illegalità e non permetta delle forme di collaborazione (artistica e lavorativa, in forma di cooperativa o associazione) di cui i giovani creativi beneficierebbero (e beneficiavano nel passato). 

La retorica del lavoro flessibile, smart e giovane, opposto al polveroso, ma sicuro lavoro da dipendente cela la realtà di una generazione – e di un paese – in perenne contraddizione: non si è né gli uni né gli altri, ma solo tante incerte chimere. Questa, come tante zone grigie della realtà lavorativa italiana fa sì che pensare al futuro sia motivo di ansie, o, peggio, privo di senso. Non essendo riconosciutƏ, né contatƏ nelle analisi demografiche, questƏ lavoratorƏ faticano ad organizzarsi per richiedere migliori condizioni di lavoro, tanto irraggiungibili quanto ineffabili per quel pensiero che non riesce a immaginarsi futuro.

Immagine di copertina: Scena da La Vie de bohème (1992), film diretto da Aki Kaurismäki.

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