
Il sol dell’avvenire (2023) segna il ritorno di Nanni Moretti nelle sale cinematografiche a soli due anni di distanza da Tre piani (2021) – e lo fa riprendendo una serie di stilemi che hanno caratterizzato diversi dei film più celebri dell’autore. Ancora una volta, Moretti racconta la storia di un regista che si trova in difficoltà nella realizzazione del proprio film – un’opera riguardante tematiche sociali e politiche spinose – a causa degli ostacoli creati dall’intreccio della sua vita privata e professionale. Sebbene siano diverse le opere di Moretti che ricadono in questa descrizione, Il sol dell’avvenire richiama, per tono e atmosfere, i fasti di Aprile (1998), uscendo così dal tracciato di quella parabola discendente che ha caratterizzato la produzione artistica del regista durante gli anni 2000. Tuttavia, nonostante una prima buona impressione, il film tradisce non solo le aspettative, ma anche quella poetica che aveva reso grande l’artista.
Protagonista della storia è Giovanni (Nanni Moretti), un anziano regista alle prese con la realizzazione di un film ambientato a Roma durante i giorni della rivolta ungherese del ’56. Protagonista dell’opera fittizia è invece un capo della sezione locale del partito comunista (Silvio Orlando), diviso tra la fedeltà al proprio gruppo politico, che si schierò a favore dell’Unione Sovietica, e il supporto nei confronti della moglie (Barbora Bobul’ová), che sceglie di opporsi alla linea politica ufficiale del partito. Giovanni stesso è alle prese con una situazione familiare problematica, dal momento che la moglie Paola (Margherita Buy) decide di abbandonarlo per sfuggire alla sua personalità esasperante ed egocentrica. La vicenda personale di Giovanni e del personaggio del suo film si mescolano costantemente, anche grazie a tagli di montaggio netti che legano le due vicende come se ci fosse una soluzione di continuità, spesso introducendo le scene in medias res. Politica, arte e vita privata si mescolano così in un unico racconto, indipendentemente dal loro essere fittizie o reali.

Buona parte del cinema di Moretti si è concentrata proprio su questo rapporto tra l’esigenza di raccontare qualcosa attraverso l’arte cinematografica e i fattori esterni che frustrano questo impulso. I protagonisti mettono spesso in scena aspetti della personalità del regista, che non compare solo in quanto interprete e personaggio, ma talvolta in quanto persona vera e propria. In altre parole, Moretti narra la propria esigenza di raccontare e il suo scontro con il mondo reale. Il film che più di tutti si basa su questo aspetto è il già citato Aprile: qui il regista, che interpreta sé stesso, si ritrova in un limbo in cui vorrebbe girare un documentario sulla politica italiana del tempo, ma il peso di anni passati a mettere in scena cose che odia e che lo fanno arrabbiare lo induce ad abbandonare tutto per realizzare un musical su un pasticciere trotzkista. Né il documentario né il musical verranno mai realizzati: è Aprile stesso il risultato di questa tensione artistica. Nonostante il Moretti personaggio giunga alla conclusione che non vale la pena vivere raccontando ciò che odiamo, il Moretti regista non riesce a sposare appieno questa prospettiva.
Il sol dell’avvenire riprende il discorso. Di fronte alla scelta di fare l’ennesimo film tragico, in cui il conflitto si dovrebbe risolvere con il suicidio del personaggio interpretato da Silvio Orlando, Giovanni decide di prendere una strada diversa e cambiare il proprio approccio al cinema – e, di conseguenza, decide di cambiare sé stesso. Da una cruda rappresentazione della vita umana, il cinema diventa uno strumento edificante: deve raccontare qualcosa di positivo, che sia un punto di riferimento. Il cinema non deve solo rappresentare la realtà, ma deve anche impegnarsi a cambiarla. I personaggi di Giovanni non sono più vittime delle vicende storiche, ma sono gli artefici di una storia alternativa, in cui la giustizia ha prevalso sull’opportunismo politico.

Questa non è solo un’autocritica del personaggio di Giovanni, ma una presa di posizione di Moretti stesso nei confronti del proprio cinema. Tuttavia, il risultato è sconcertante. Il rischio è quello di trasformare il cinema in uno strumento per raccontare favole e poco altro. Lo stesso finale de Il sol dell’avvenire soffre di questo problema: un film che vuole cambiare la realtà non può davvero permettersi di ignorarla, se non vuole trasformarsi in un’opera di vuota retorica, senza sostanza. Ciò che ha reso grandi opere come Ecce bombo (1978) è stato proprio il non distogliere gli occhi dalla realtà (pur usando un approccio ironico e satirico), mettendo in scena un disagio giovanile che all’epoca era sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno riusciva davvero a riconoscere o ad accettare. In questo caso, era proprio la mancanza di una soluzione definitiva o di una morale chiara a rendere potenti film come questo.
Non è questo l’unico difetto del film. Dalle sue pellicole più recenti, Moretti riprende il vizio di inserire sottotrame a cui viene dato troppo spazio, nonostante la poca importanza che hanno per la narrazione nel suo complesso. Inoltre, la tendenza del regista a mettere in scena le proprie idiosincrasie viene esasperata e raggiunge dei livelli a dir poco grotteschi. Il risultato è un’opera che, nonostante le premesse, non solo conferma il calo artistico di un autore che da anni sembra non essere più in grado di mantenersi all’altezza del proprio nome, ma che segna anche un tradimento della sua stessa poetica.
Immagine di copertina: Un frame del film Il sol dell’avvenire