
Ad inizio gennaio l’Organizzazione Internazionale per il Lavoro (OIL) – Agenzia specializzata delle Nazioni Unite sui temi del lavoro e delle politiche sociali – ha pubblicato il primo studio sull’equilibrio tra lavoro e vita privata, il cosiddetto work-life balance. Analizzando le ore e le modalità di lavoro, lo studio evidenzia come la maggioranza dei lavoratori non lavora più in base ad una settimana lavorativa standard. Un terzo lavora regolarmente più di 48 ore settimanali. Ma il dato più interessante è che l’OIL sottolinea come le politiche di work-life balance nelle imprese apportano significativi benefici come una maggiore produttività e una riduzione del ricambio del personale.
La pandemia di Covid-19 e le restrizioni imposte soprattutto durante il 2020 hanno contribuito a innalzare il work-life balance a una delle principali questioni sociali e lavorative per le persone. Negli Stati Uniti questa nuova consapevolezza ha portato il fenomeno delle ‘grandi dimissioni’, termine coniato nel maggio 2021 dal professor Anthony Klotz a identificare un esodo di lavoratori americani dal proprio posto di lavoro, spinto dal burnout e dalla voglia di maggiore flessibilità. La pandemia ha anche mostrato quante aziende sono state disposte a mettere a rischio i propri dipendenti in nome dei profitti e quante persone non sono state disposte a sacrificare le proprie comodità per la sicurezza di un’altra persona.
Per decenni, la cultura occidentale è stata quella di impegnarsi a fondo per il proprio datore di lavoro. Se dedichi forze ed energie al lavoro, verrai ricompensato. Se l’impegno è per un lavoro che si ama, la retribuzione sarà soddisfacente. Se invece si tratta di scalare i gradini di un’azienda, la ricompensa sarà un aumento. Sebbene diverse siano le motivazioni, la narrazione rimane la stessa: dedicarsi al lavoro ripaga. Di conseguenza, il lavoro è spesso diventato un’ossessione, persino un’identità; qualcosa che i lavoratori tradizionalmente si sentivano fortunati ad avere.
Tuttavia le nuove generazioni stanno riscrivendo le loro priorità lavorative. Hanno osservato le generazioni precedenti, i genitori in primis, sperimentare nonostante il duro impegno il burnout, la mancanza di tempo libero, il precariato e l’insicurezza economica. Per questo motivo ora i giovani chiedono di più ai datori di lavoro. L’idea di dedicare il proprio tempo, soprattutto il tempo libero, al lavoro non è più scontato. Le preferenze lavorative diventano quindi stipendi più alti, possibilità di crescita personale, attenzione alla salute mentale, la flessibilità di lavorare a distanza e una maggiore responsabilità sociale e ambientale. Questo porta a una maggiore flessibilità lavorativa alla ricerca di un ambiente di lavoro migliore.

Questo atteggiamento viene difficilmente compreso dalle generazioni più vecchie che in alcuni casi potrebbero pensare che i nuovi assunti dovrebbero ‘soffrire’ come hanno fatto loro in passato. Rifiutando in larga parte questa cultura lavorativa, le nuove generazioni (in parte i Millennials ma soprattutto la Generazione Z) sono state definite pigre e pretenziose. Gli è stato detto che chiedono troppo, che dovrebbero essere riconoscenti di avere un lavoro, che sono narcisisti. Ma cosa c’è di negativo nel ricercare un ambiente di lavoro migliore allontanandosi sempre di più da una cultura lavorativa a tratti tossica?
Grazie a queste prese di posizione le aziende iniziano a capire che per essere competitive nel mercato del lavoro e attrarre talenti devono offrire condizioni migliori. Sempre più aziende includono politiche di work-life balance per i propri dipendenti e permettono tipologie di lavoro flessibile come la settimana lavorativa di quattro giorni e il lavoro da remoto. Inoltre queste richieste stanno anche aiutando a ridurre lo stigma della flessibilità che è tradizionalmente associata a donne e madri che chiedono orari meno rigidi per occuparsi dei figli o di persone anziane. Lo stigma spesso penalizza le donne nella loro carriera riducendo le possibilità di promozioni e guadagnando meno rispetto ai colleghi uomini. Il fatto che la flessibilità non sia più solamente richiesta da donne, ma anche da uomini e padri, potrebbe quindi aiutare a ridurre questo stigma e ridurre le discriminazioni di genere sul luogo di lavoro.
Immagine di copertina: Le nuove generazioni di lavoratori si rifiutano di essere sfruttate e accettare retribuzioni inadeguate. Perché andare in burnout se posso cercare qualcosa di migliore?