
11 luglio 2021, giorno della finale degli Europei di calcio tra Inghilterra e Italia. Poniamo che alcune persone in quel momento si siano trovate su un aereo, isolate dunque da internet, dalla città e dalle altre persone a terra. Costoro avrebbero potuto discutere per tutto il tempo del viaggio su chi alla fine avrebbe alzato la coppa, e le loro opinioni avrebbero avuto tutte lo stesso valore: l’impasse infatti si sarebbe risolta solo nel momento dell’atterraggio, con relativa accensione dei cellulari e controllo del risultato. Perché nessuna idea è potuta prevalere sull’altra? Semplicemente perché, in assenza del fatto, ovvero il punteggio della finale, si crea un relativismo dell’informazione. Ovvero uno vale uno.
La crisi del fatto. Il mondo dell’informazione, soprattutto in Italia, ha un problema: la crisi dei fatti. Li si nasconde, li si trascura, o se proprio non si possono ignorare, li si liquida in poche righe, cercando nel contempo di rivisitarli ad immagine e somiglianza dell’editore che paga gli stipendi o dell’amico che gradisce un trattamento più morbido verso qualche sua azione. Non manca poi il commentatore medio, allergico all’informazione, che pontifica su parole che non conosce, con frasi tipo “il vero giornalista dovrebbe essere neutrale”, “cerca di essere obiettivo”, “sei anti (qualcuno)”, “Perché non scrivi anche di questo”? La realtà è dunque in crisi: ci creiamo infatti la nostra “bolla” ma poi ci stupiamo di come le cose non vadano secondo i nostri desiderata e, a chi prova a spiegarci i fatti, se non ci piacciono, attribuiamo simpatie nel campo opposto al nostro. Invece, se i dati di realtà corroborano le nostre opinioni, chi ce li ha raccontati diventa il nostro maître à penser. Più che una narrazione, una definizione: tu sei ciò che pensi. Un’opinione porta consenso, si è felici, fine.
Neutralità, in fondo è così semplice. Il sogno nascosto, ma nemmeno troppo, di tanti, è l’assoluta neutralità dell’informazione. Sergio Mattarella, il 28 maggio del 2018, ai tempi della crisi politica che portò alla nascita del governo gialloverde, parlò di un “governo neutrale” da affidare all’economista Carlo Cottarelli. Subito alcuni commentatori osservarono: cosa significa “governo neutrale”? Come fa ad ottenere la fiducia un governo neutrale, ovvero né di qua né di là? Nessuno seppe rispondere e per fortuna nessuno dovette porsi il problema a lungo, dato che dopo qualche giorno nacque un “governo politico”. Questo episodio è lo stesso esemplificativo di una tendenza, ovvero la ricerca della chimera della neutralità; neutralità nella politica, nei media, nei comportamenti. Si smussano gli angoli così da diventare tutti uguali, dunque più controllabili. Peccato che, alla lunga, solo i defunti siano neutrali, quindi il sogno di cui sopra, per fortuna, resterà tale.

L’antidoto all’obiettività. Poniamo, sempre a proposito di situazionismo calcistico, di farci raccontare lo svolgimento della partita appena disputata da tre persone che stanno uscendo dallo stadio. È chiaro come i tre racconti differiranno e non poco: ciascuno infatti, quando va a vedere uno spettacolo, rimarrà colpito da un particolare invece che da un altro, avrà visto la partita in modo diverso, magari in un diverso settore, concentrandosi più sul tifo che sull’aspetto tattico. Le tre persone avranno inoltre una differente sensibilità calcistica e linguistica, potendo esprimere dunque in modo diverso la propria ammirazione o non apprezzamento verso un calciatore; nonostante questo però, se nessuno dei tre dice che la partita è finita 2-0 anziché 1-1, nessuno sta raccontando una menzogna: l’importante è che il nucleo centrale del resoconto, il fatto, sia lo stesso. I tre resoconti non sono obiettivi: sono veri, ma non assoluti. La non assolutezza conferisce però colore, e ciò è un bene: tre punti di vista differenti aiutano, sempre nei limiti, l’immaginario intervistatore a farsi un’idea più chiara su ciò che è avvenuto.
Un colpo al cerchio e uno alla botte. Ulteriore degenerazione della neutralità già degenerata è il cosiddetto “cerchiobottismo”, da una felice definizione di Giovanni Valentini, ex direttore di “L’Espresso” e “Repubblica”. In cosa consiste? È semplice. Se faccio di professione l’arbitro, dopo aver dato un rigore dubbio ad una squadra ne do un altro alla rivale e se faccio invece il giudice, dopo aver assolto due imputati ne condanno altri due, nel tentativo nel primo caso di “rimediare” e nel secondo di passare per equo: peccato che due errori non facciano un’azione giusta, e due condanne dopo due assoluzioni non mi rendano rispettoso del principio “La legge è uguale per tutti”. Altri esempi tratti invece dal mondo dell’informazione: se parlo male di un politico, parlo male anche dell’altro, in modo da passare per osservatore “indipendente” e non militante; ma anche in questo caso sarò un osservatore scadente. Le opinioni, così come le azioni, scontentano per forza qualcuno: accontentare tutti è impossibile.

Imparzialità, in fondo è così difficile. L’unico valore allora raggiungibile, e dunque da inseguire e, se raggiunto, da coltivare è quello dell’imparzialità. Raggiungerlo non è comunque semplice: necessita infatti di studio dei fatti, dei codici, di una propria sensibilità e conoscenza. La parola va a braccetto con la “buona fede”: tornando sempre all’arbitro, è possibile che sia più restio a fischiare determinati contrasti rispetto ad altri, oppure a tollerare meno le proteste veementi; ma se tutto ciò è fatto in buona fede, risulta legittimo. Lo stesso comportamento sarebbe da adottare nel mondo dell’informazione: corretta verifica delle fonti ed esposizione dei fatti più dettagliata e chiara possibile, in modo che chiunque possa comprendere. Poi è chiaro come la propria sensibilità e le proprie idee possano influenzare il testo: ciò che è da salvaguardare però è il fatto, non l’obiettività, nella speranza un giorno di poterlo raccontare per intero, senza incorrere in censure, falsità o reinterpretazioni. Ma forse, citando Leo Longanesi, “quando potremo farlo non ce lo ricorderemo più”.
Immagine di copertina: Le verità.