
L’impressione che si prova entrando nella prima sala dell’esposizione di Sally Gabori alla Triennale di Milano è quella di venir sopraffatti da immense pennellate di colori materici, nitidi, per lo più primari, che riempiono le tele di spazi di vita, ad evocare gli elementi di una terra lontana in cui veniamo magicamente trasportati.
Ma dove, esattamente, veniamo condotti? Sull’isola di Bentinck, nel Golfo di Carpenteria, a nord dell’Australia. È questa la terra che, nel 1924, ha dato i natali alla protagonista di questa storia: Sally Gabori Mirdidingkingathi Juwarnda.

Credits: Image Science & Analysis Laboratory, NASA Johnson Space Center.
Appartenente al popolo Kaiadilt, Sally Gabori – il cui nome, secondo la tradizione locale, è composto dalla parola del luogo di nascita (precisamente Mirdidingki, un’insenatura a sud di Bentinck) e da quella dell’antenato totemico (che nel caso di Sally è juwarnda “delfino”) – è una pittrice unica. Si è infatti avvicinata all’arte soltanto nel 2005 alla veneranda età di 80 anni, concentrando la sua vastissima produzione (più di 2000 opere) tutta in quest’ultimo capitolo della sua vita (è morta nel 2015).
Le ragioni che l’hanno spinta a dedicarsi a questa frenetica attività pittorica affondano le radici proprio nel legame con la sua isola.
Essendo un luogo particolarmente recondito, l’isola di Bentinck e i suoi abitanti (circa 125 persone) furono l’ultimo popolo autoctono del litorale australiano ad entrare in contatto con i colonizzatori europei. Sally e la sua famiglia conducevano uno stile di vita basato sulle risorse naturali dell’isola, dove a ciascuno erano affidati precisi compiti, come la pesca o la tessitura dei cesti. Fino agli anni Quaranta continuarono a vivere indisturbati in questo luogo ameno, ma in seguito i missionari presbiteriani, stabilitisi nella vicina isola Mornington, cominciarono a premere perché essi si unissero alla loro missione – sebbene inizialmente con scarsi risultati. La situazione rimase invariata fino al 1948, quando un disastroso evento climatico danneggiò le coltivazioni, contaminò le riserve di acqua dolce e decimò la popolazione Kaiadilt, costringendo fatalmente gli ultimi sopravvissuti, tra cui la famiglia di Sally, ad evacuare l’isola e a unirsi ai missionari.
Ebbe così inizio il periodo che più segnerà la vita della pittrice: l’esilio dalla terra natia, durato decenni. Le conseguenze di questo evento lasciarono in lei un’impronta indelebile per la frattura insanabile che si venne a creare dalla sua terra e dalla sua cultura. È proprio di questo, infatti, che parlano le tele di Sally Gabori: di uno strappo, di una perdita e di un vuoto che la pittrice ha potuto colmare solo attraverso l’arte, riempiendolo con le sue pennellate decise e intrise di colori lucenti, come a rendere più concreto e reale lo sforzo di riappropriazione della sua terra.

Quando nel 2005 visitò per la prima volta il Centro d’Arte di Mornington, trovò nella pittura l’ispirazione e l’opportunità per riavvicinarsi ai suoi luoghi. Da quel momento la sua espressività, attraverso la sua personale tecnica pittorica, iniziò a prendere vita. Sebbene le sue tele siano principalmente astratte, al loro interno si possono trarre elementi ripetuti che raffigurano e celebrano l’isola natale alla quale Sally e la sua gente, per decenni, restarono legati unicamente tramite i loro nomi. Il popolo Kaiadilt, infatti, è riuscito a ottenere dalla legislazione australiana il permesso di ritornare a Bentinck solo negli anni ‘90 – venendo però confinato all’interno di un avamposto appositamente costruito a sud-est dell’isola.
Il prolifico lavoro di Sally, precedentemente riunito e ospitato dalla Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi, approda oggi a Milano nelle sale della Triennale, accompagnandoci con 30 opere nei luoghi principali della sua infanzia sull’isola Bentinck, di cui i più importanti sono rispettivamente: Nyinyilki, Thundi e Dibirdibi.
Nyinyilki è una zona particolarmente umida nella parte sudorientale dell’isola, in cui si trova una laguna d’acqua dolce dove i Kaiadilt praticano la pesca. È anche il luogo nel quale, negli anni ’90, fu costruito l’avamposto che permise a Sally e ai Kaiadilt di tornare nella loro terra dopo l’esilio forzato. Nei suoi dipinti, Sally rappresenta quest’area attraverso l’uso dell’azzurro che rimanda all’elemento principale che la caratterizza: l’acqua. Sono queste le tele che aprono il percorso della mostra inneggiando ad un ritorno a casa e a un ritrovato contatto con la terra madre.
Thundi è invece la regione a nord dell’isola dove nacque il padre di Sally. Nei dipinti che la raffigurano viene evocata e indagata la bellezza dei paesaggi e dei fenomeni atmosferici di Bentinck. I tre elementi fisici onnipresenti dell’isola – terra, mare e cielo – sono qui rappresentati dalla pittrice con una tecnica peculiare, che consiste nel dipingere con gesti veloci e fluidi strato su strato senza lasciare al colore il tempo di asciugare, per ricreare, così, le infinite variazioni di luce tipiche del clima mutevole del Golfo di Carpenteria, in un morbido gioco di trasparenze.
La sezione Dibirdibi, infine, è dedicata al luogo più rappresentato dall’artista, collocato a sud dell’isola natìa. È qui che vengono celebrati, in maniera assoluta, la sua terra madre, attraverso il mito della sua creazione, e l’amore verso il marito, Pat Gabori. In queste tele, che accompagnano il visitatore verso la fine dell’esposizione, si compie una vera e propria ode alla storia Kaiadilt in cui Sally esorcizza il dolore per il distacco dalla sua terra.
Il nuovo legame che Sally crea attraverso la pittura diviene un linguaggio che l’artista decide di condividere con altre donne della cultura Kaiadilt, tra le quali alcune sorelle e nipoti, realizzando con esse opere corali. Di queste due sono esposte nella mostra di Milano su tele di sei metri che aprono lo sguardo a una visione aerea dell’isola contraddistinta da colori brillanti e da moduli di simboli ancestrali.

Chi volesse intraprendere questo incantevole ed immersivo viaggio alla scoperta dell’arte di Sally Gabori lo potrà fare visitando la mostra, aperta fino al 14 maggio 2023. È una possibilità di conoscere voci lontane che ci è offerta dal mezzo potente e umano dell’arte.
Immagine di copertina: My country, Sally Gabori, 2006.