
Capita, di tanto in tanto, di trovarsi in un momento di stasi tra una frenesia e un’altra: è una cosa normale, diremmo, godere del riposo nel momento in cui esso si colloca tra (ma, meglio ancora, subito dopo) fatiche di una certa importanza, siano esse fisiche o mentali.
Ben più difficile è considerare in modo positivo, o quantomeno paritario rispetto a quanto detto sopra, quella forma di riposo “anormale”, ovvero quella particolare disposizione dell’animo alla quiete che non deriva dalla necessità fisiologica.
Si potrebbero citare decine e decine di autori, alcuni abusati all’inverosimile come Cicerone o Seneca, per sostenere quanto l’ozio declinato in varie sue forme (sociale, letteraria, contemplativa..) sia necessario a un uomo equilibrato.
Tuttavia il punto è forse un altro ben più pressante: nella nostra società contemporanea oziare, così come un qualsiasi momento di quiete, non è necessario. O, per meglio dire, non è percepito come necessario.
In Val Padana poi, da dove l’autore di questo articolo vi scrive, l’ozio è l’anticamera del fallimento parossistico, e a dirla tutta ce lo si può anche aspettare in un sistema dove la produttività è la base della piramide valoriale mentre il suo opposto, l’improduttività, è il presupposto per lo stigma sociale.
Tuttavia, quando parliamo di ozio non parliamo propriamente di improduttività, di inattività, ma di una situazione paradossale che non è percepita come produttiva, quando in realtà semplicemente produce beni inconsumabili.
Lo diceva bene Pasolini, in merito alla propria produzione poetica, nella trasmissione di Enzo Biagi “terza B. facciamo l’appello” del 1971 : «Io produco una merce, la poesia, che è inconsumabile: morirò io, morirà il mio editore, moriremo tutti noi, morirà tutta la nostra società, morirà il capitalismo ma la poesia resterà inconsumata».

E l’ozio è proprio questo che produce: merce indeperibile; vendibile forse in alcuni casi, ma inconsumabile; divulgabile ma incorruttibile. E tutto questo forse per via del fatto che l’ozio è prima di tutto un’esperienza individuale, unica e irripetibile, una sorta di spazio di dialogo interiore con sé stesso come interlocutore; un dialogo che può essere solo condiviso con gli altri, ma con in più la possibilità che gli altri, recependo l’esperienza dell’individuo, possano sovrapporre o sommare ad essa la propria, arricchendola.
Se non si ha una cassa di birra al posto del cuore (Sic!), può capitare di sentire l’esigenza in una situazione di prendersi un momento solamente a osservare e a godere di quello che si ha intorno, sentendo genuino appagamento. Questa esigenza non si può dire che nasca dalla stanchezza di un lavoro fisico o mentale ma nasce piuttosto da un moto dello spirito, che impone di accorgersi del mondo che si ha intorno, del nostro posto in esso e di come ad esso reagiamo.
In altre parole nasce da un tipo diverso di necessità, che vede il suo baricentro spostarsi dall’esterno verso l’interno: non siamo obbligati a fermarci perché qualcuno o qualcosa ce lo impone, ma siamo obbligati a fermarci perché vogliamo farlo.
Si tratta di un esercizio di volontà alla presenza, non un “buttare via il tempo” ma un investirlo secondo una logica diversa, che ci disallinea dagli ingranaggi della macchina del quotidiano.

Siamo sconvolti da ritmi frenetici. La performance dell’apparire ha soppiantato molto spesso l’esigenza fondamentale di fare esperienza delle cose con genuinità e ha oscurato il nostro diritto ad essere prima ancora di fare, nutriti nella menzogna che è il lavoro che dà la dignità, che è il lavoro il nostro fondamento e il nostro scopo e anche il nostro contributo nei confronti della società nella quale siamo inseriti.
Questa formula è forse ciò che sta alla base delle principali critiche mosse dalle vecchie generazioni a quelle nuove, come abbiamo già avuto modo di approfondire negli articoli di Clara e Andrea.
Ma che genere di società è quella dove gli individui non nutrono la loro parte spirituale a un livello di connessione intima con il mondo che li circonda? E che tipo di aspetto può mai avere?
Una prima considerazione è che una società così definita priverebbe gli individui su diversi piani: a livello della propria unicità, togliendo la possibilità di riservarsi spazi personali di auto riflessione; a livello della propria relazione con l’ambiente in cui si vive, in quanto esso diventa una mera scenografia nella quale l’individuo si muove e non un attore con il quale dialogare; a livello della relazione con i propri simili, perché non si stabilisce uno scambio profondo, non ci si condivide con qualcuno ma piuttosto si condivide qualcosa (luoghi, passatempi, occupazioni) con qualcuno.
La seconda considerazione, conseguente, è che una società di individui espressi a metà (e che, sacrificando la loro parte spirituale, si realizzerebbero a metà), non può essere altro se non una società disfunzionale: da un lato, l’individuo che si accorge della scissione annaspa nella disperata ricerca della metà che gli manca fuori di sé, senza trovarla; dall’altro lato, l’individuo che procede come su un binario semplicemente soffoca questa parte di sé.

In entrambi i casi gli individui non sarebbero sostenuti nel dare un apporto in senso di realizzazione spirituale alla società di cui fanno parte. come potrebbero del resto farlo senza essere messi in condizione di esperire l’analisi interiore in prima persona (che, per chiarire, non è solo emozionale, in quanto impulso dell’animo, ma anche razionale, in quanto attività dialettica)?
Per questo l’Ozio non è il padre di tutti i vizi, ma è una dimensione alla quale dobbiamo tutti essere educati, una dimensione da riscoprire come fondamentale nella maturazione della personalità individuale, e decisiva nell’ottica dell’arricchimento collettivo. Tanto più proficua quanto più diventa una azione interiore, un tempo per sé stessi preso deliberatamente sulla base di un riconoscimento: il riconoscimento che un momento della propria vita merita di essere vissuto con pienezza e consapevolezza.
Immagine di copertina: De Chirico “Les plaisirs du poète”