L’umanità in uno scatto: l’eredità fotografica di Dorothea Lange

Con il suo lavoro, la grande fotografa ha donato un’espressione eterna all’America della Grande Depressione.

Dorothea Lange è stata, più di chiunque altro grande fotografo del Novecento, una fotografa pubblica. Attraverso il suo sguardo ha saputo infatti ritagliarsi il ruolo di “scienziata sociale” e “osservatrice di fenomeni”, per mettere a disposizione della collettività le immagini catturate con il suo sguardo. A questo scopo scrisse, tra l’altro, che «la fotografia dovrebbe essere soprattutto una promotrice di conseguenze».

Dorothea si avvicina alla fotografia da giovanissima, non ancora ventenne: prima come tuttofare nell’atelier di Arnold Genthe, eccellente ritrattista, per poi cominciare a mettere concretamente mano alla macchina fotografica imparandone le basi sotto la guida di Clarence H. White, maestro della fotografia artistica. Dopo essersi iscritta alla San Francisco Camera Club, a ventitré anni apre il suo studio sulla prestigiosa Sutter Street e si sposa con il pittore Maynard Dixon.

Arrivati a questo punto della biografia si pensa quindi a Dorothea come ad una promettente ritrattista della West Coast, contemporanea a donne moderne, ambiziose e indipendenti come le colleghe Tina Modotti, Imoge Cunningham, Margrethe Mather. È la crisi del ’29 a cambiare la direzione della carriera di Lange, che, affascinata dalla nuova fotografia straight e in particolare dalle foto del famoso apripista Paul Strand, inizia ad interrogarsi sul vero ruolo della fotografia.

A San Francisco la situazione è scioccante: le strade sono piene di disoccupati che fanno la coda in chiesa per ricevere qualche razione di cibo e l’aria che si respira è densa di preoccupazione e desolazione. Nel suo studio Dorothea riflette se la strada intrapresa fino ad adesso, come ritrattista, sia quella giusta, ma soprattutto se sia utile al periodo storico che sta vivendo. «La dissonanza tra quello a cui stavo lavorando e quello che succedeva nelle strade era più di quanto riuscissi ad assimilare», racconta, ed è qui che il suo istinto la spinge a scendere per strada imbracciando la sua fotocamera.

È la prima volta, non ha idea di come comportarsi con l’obiettivo in quel frangente. La prima scena che coglie si svolge presso uno dei tanti banchi di beneficenza. Molti uomini, avvolti nelle loro giacche, attendono la loro razione di cibo alla mensa dei poveri e uno di loro è rivolto verso l’obiettivo nell’atto di mangiare. Avviene lo scatto: l’uomo risalta tra la folla, come disorientato sulla direzione da prendere, su dove andare – una metafora fortissima dell’America di allora.

White angel breadline, 1932, © Dorothea Lange.

Dorothea torna in studio con la sua prima fotografia documentaria sulla quale si interroga per capirne il significato, per cercarne un senso che ancora non sa descrivere. Quella fotografia è potente, evoca interrogativi, si staglia sulla parete dei negativi e diviene l’inizio di quel filo rosso che Lange inseguirà per il resto della sua carriera.

Da quel momento in poi, sul suo biglietto da visita si presenta come “fotografa di persone”. Sceglie di aprirsi al nuovo e di affrontare la strada, di lasciare il fittizio e decorato ambiente dello studio per immergersi nella vita vera di quei giorni di scioperi e di battaglie. Imbraccia la sua fotocamera giorno dopo giorno senza sapere esattamente cosa farsene di quegli scatti, che all’inizio verranno sfruttati per propaganda politica all’interno di una rivista progressista.

L’economista e professore Paul Taylor, che aveva a cuore i destini delle piccole realtà rurali colpite dalla crisi, dopo aver visto alcuni degli scatti di Lange la contatta per chiederle di aiutarlo nel suo lavoro di reportage delle condizioni di disagio sociale in cui versava la maggior parte del paese. Egli riteneva, infatti, che il supporto delle fotografie fosse essenziale, per raccontare ciò per cui le parole risultavano insufficienti. Questa unione di intenti, nel 1934, porta Lange a chiudere lo studio per dedicarsi completamente a questa missione per conto dello Stato. Il suo occhio ha finalmente compreso dove guardare e cosa cercare. È un occhio delegato alla comunità, una fotografa pubblica.

Verso LA, California, 1937, © Dorothea Lange.

Con la presidenza Roosevelt si dà finalmente il via a programmi di assistenza, finanziamento e accoglienza ai milioni di americani impoveriti dalla crisi. Questa scelta politica necessita di consenso, e sono le immagini, così dirette ed esplicite, a promuoverlo. Roy Stryker, capo della Farm Security Administration (FSA) – nuovo organismo governativo e radicale del New Deal – sceglie Lange per questo scopo: documentare attraverso le immagini. È l’unica donna del primo staff a collaborare, dal ‘35 al ‘39, al fianco di Arthur Rothstein, Walker Evans, Jack Delano, Russell Lee e Ben Shahn.

L’approccio fotografico di Lange si caratterizza per la sua empatia: parla molto, conosce i suoi soggetti, si presenta sempre sorridente. Le persone sono colte nella quotidianità dello spazio pubblico, dove vengono ascoltate, raccontano le loro storie e dove i bambini hanno la libertà di esprimersi e di interagire affascinati dallo strano apparecchio con cui Lange cattura le immagini. Le foto di Lange sono accompagnate da testi, didascalie esplicative, spesso scritte come fossero poesie raccolte sulla strada, negli occhi delle persone. Poi ci sono i corpi, espressivi anche più dei volti e che diventano l’elemento cardine della sua fotografia: corpi magri, tormentati dalla fame e segnati dalla fatica, ma sempre portatori di significato, di un senso che nelle fotografie di Lange si fa storia.

Florence Thompson as "Migrant Mother", Nipomo, California, © Dorothea Lange, 1930.

Lange diventa la portavoce di un mestiere per il quale «il mondo è pieno di buone fotografie, ma per essere buone le fotografie devono essere piene di mondo».

Immagine di copertina: Dorothea Lange in Texas, by Paul S. Taylor, 1934.

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