
Nella mattina di lunedì 16 gennaio 2023, sui siti di tutti i giornali italiani e internazionali è cominciata a diffondersi una notizia tanto sperata quanto inaspettata: l’arresto di Matteo Messina Denaro, figura di spicco di Cosa nostra e latitante più ricercato d’Italia, resosi invisibile per trenta lunghissimi anni – dalle stragi mafiose del 1993. Immediate sono arrivate le reazioni del Governo, in un pressoché unanime coro trionfale e autocelebrativo, concorde nel presentare la cattura del superboss come un successo politico dell’attuale esecutivo, del braccio duro della Destra e del nuovo Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. La Presidente Meloni ha proposto di rendere il 16 gennaio «giorno della lotta alla mafia», per effetto di un singolare ragionamento secondo cui le presunte vittorie del suo Governo dovrebbero automaticamente diventare feste nazionali, e dimenticando che tale giornata, in realtà, esiste già. Cade infatti ogni 21 marzo ed è stata chiamata “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie” a partire dalla convinzione che un giorno dedicato alla lotta alla criminalità organizzata debba fondarsi non su un generica contrapposizione alla mafia – che dovrebbe tra l’altro esser presente di default nelle istituzioni –, ma sul ricordo concreto di chi alla lotta contro il sistema mafioso ha dedicato la vita e, nel farlo, l’ha persa.
Tuttavia, pur nella loro discutibilità, queste esternazioni dei partiti di governo non devono sorprendere perché fanno parte del carattere perverso della macchina comunicativa della destra italiana e del modus operandi personalistico che la Presidente del Consiglio ha ben appreso da altri che, venendo dalla sua stessa area politica, l’hanno preceduta in quel ruolo. Non che queste affermazioni non siano gravi, ma il problema maggiore emerso nelle ultime ore rispetto alle reazioni circa la cattura di Messina Denaro è un altro. Lo sintetizza bene (per così dire) il titolo più che censurabile di un articolo apparso il giorno successivo all’arresto del boss di Cosa Nostra sulla prima pagina di Libero. Il titolo recita così: «L’antimafia non ha più senso». E nell’occhiello: «Cosa nostra s’è estinta».

Ora, come sempre nel caso di questo giornale, verrebbe da dire, citando il Sommo Poeta, «non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Il punto, però, è che l’idea falsa di un indebolimento – se non addirittura di una sconfitta – della mafia potrebbe essere ben più diffusa di quanto non si possa pensare se la si derubrica a sciocchezza prodotta dal predetto quotidiano. In fondo, la notizia della cattura del boss è stata presentata da tante altre testate italiane con termini ultimativi, come se la sua resa potesse davvero rappresentare per il nostro Paese una sorta di giorno della liberazione dal cancro mafioso. La stessa definizione di Messina Denaro come “l’ultimo padrino” o “l’ultimo stragista”, ripetuta in molte prime pagine, potrebbe generare in una parte dell’opinione pubblica la percezione erronea che ora, con l’arresto del suo membro più ricercato, la mafia sia stata azzoppata, se non proprio messa al tappeto, e che ci si possa quindi concentrare su altro.
Si tratta però di un errore, in cui è fondamentale non cadere. È vero, la mafia, con i suoi riti arcaici, le sue modalità brutali e il suo distorto senso dell’onore, ci pare un orrendo anacronismo, che sembra impossibile possa continuare a esistere nel nostro tempo. Ma purtroppo la verità è un’altra: oggi la mafia si diffonde subdolamente in tutte le aree lasciate vuote dalla politica e, benché abbia abbandonato il metodo stragista, non smette di corrompere e di intimidire. E quindi, anche se il più temuto latitante mafioso è stato catturato, non si deve né pensare che la criminalità organizzata sia morta né arretrare di un centimetro rispetto al pensiero che la lotta alla mafia sia ancora in atto. Il rischio è che la percezione di un cessato pericolo si estenda nella società italiana e che, di conseguenza, le nostre barriere difensive si indeboliscano, facendo venir meno l’impegno di sensibilizzazione pubblica e riattivando indirettamente l’attività mafiosa, che di fronte a sé non avrebbe più ostacoli, non solo materiali, ma anche intellettuali e morali. Che non si debba esultare come se avessimo sconfitto Cosa nostra e la mafia in generale lo ha ricordato bene Don Luigi Ciotti attraverso i profili social di Libera: «le mafie non sono i loro capi», ha detto, perché la loro organizzazione non ha l’architettura di una piramide o di un arco di pietre che crolla se privato della sua chiave di volta, ma è una rete, un’organizzazione strutturata capillarmente proprio per riuscire a sopravvivere alle eventuali catture dei suoi capi.

L’arresto di Matteo Messina Denaro, ovviamente, è una grande notizia. Tuttavia, giungendo dopo decenni di coperture e silenzi, non è il trionfo dello Stato sulla Mafia che si dice che sia, ma ha anzi il sapore di una vittoria agrodolce, in cui il sollievo per la cattura del superboss si fonde con l’amara consapevolezza dell’esistenza di una rete di protezione che per decenni ne ha favorito la latitanza. Guai, poi, a pensare o a dire ad alta voce che la guerra sia vinta, quasi si potessero allentare le difese che decenni di impegno civile, educativo e commemorativo hanno eretto in Italia per contrastare il fenomeno mafioso. È troppo presto per considerare la mafia un brutto ricordo tramandato soltanto da vecchi classici del cinema di Hollywood.
Immagine di copertina: Lenzuoli bianchi appesi ai balconi a Palermo dopo la morte di Falcone, maggio 1992 (mostra ANSA).