
Life –
I am of both of your directions
Somehow remaining hanging downward
the most
but strong as a cobweb in the
wind – I exist more with the cold glistening frost.
But my beaded rays have the colours I’ve
Seen in a painting – ah life they have cheated you.
Queste righe non le ha scritte né un famoso scrittore, né un famoso poeta, le ha scritte Marilyn Monroe o, meglio, Norma Jeane.
È una delle tante poesie ritrovate all’interno di quaderni e diari che Marilyn amava riempire di pensieri, di appunti e di lettere. Questa Marilyn, ai più, risulta sconosciuta, mai indagata, eppure è qui che, nascosta e silenziosa, si trova la sua vera essenza.
Conservati e custoditi dal suo maestro di recitazione Lee Strasberg dopo la tragica morte dell’attrice, gli scritti vengono dati alla luce nel 2008 e resi pubblici in una raccolta curata da Stanley Buchthal e Bernard Comment. Ecco che, nel momento in cui scompare la donna la cui bellezza ha stregato e infiammato i cuori di miliardi di persone e che è diventata un’icona dal primo momento in cui è entrata negli ingranaggi dello spietato mondo dello star system hollywoodiano, prendono voce le parole della sua vera, candida e vulnerabile metà.

Norma Jeane sceglie di chiamare il suo alter ego Marilyn Monroe. La doppia “M” del nome non è casuale: Norma ama il dualismo che, fin da quando è nata, la caratterizza essendo del segno dei Gemelli. Dopo anni di smarrimento e sofferenza dovuti al difficile periodo che dall’infanzia l’ha portata all’adolescenza, senza un padre e con una madre mentalmente instabile, Norma ha maturato in sé una spiccata sensibilità alla vita e una profonda autoanalisi del suo animo. Ma per la ragazza malinconica, dolce e pensierosa non c’è spazio ad Hollywood dove si predilige l’iconicità e la perfezione solare e radiosa della femme fatal.
Nella prefazione del libro edito da Feltrinelli nel 2010, Marilyn Monroe, Fragments, Antonio Tabucchi descrive questa dicotomia di Marilyn utilizzando concetti di derivazione classica. Ne parla, infatti, servendosi delle seguenti parole greche: idolon (εἴδωλον) e phantasma (φάντασμα), che rispettivamente significano: il “simulacro” di un corpo e l’ “immagine” che abbiamo di noi stessi all’interno del nostro pensiero – più comunemente conosciuta con il termine di “anima”. La stessa Marilyn nel 1959 si definisce un fantasma: “I guess I am a fantasy”, ovvero “credo proprio di essere un’apparenza”.
Il phantasma di Norma assume dunque le forme tramite cui la conosciamo tutti: con le sue morbide curve, i capelli biondo platino, la pelle nivea e gli occhi magnetici dalle lunghe ciglia scure che subito attraggono il mondo in tutte le sue forme d’arte, divenendo simbolo icastico di un sistema di globalizzazione della bellezza che la sradicherà crudelmente da se stessa, ma senza mai riuscire a spegnere in lei la purezza e il candore della ragazza che scrive poesie, che legge Milton, Dostoevskij, Cechov e ancora Joyce, che sogna di recitare ruoli impegnati e di spessore – magari calandosi nei panni di qualche opera shakespeariana – e che ama soffermarsi ad ammirare le opere di Rodin al Metropolitan Museum.
Velocemente, questa sua immagine prende vita e inizia a moltiplicarsi all’interno della società di massa e a deformarsi nelle opere degli artisti del Novecento come De Kooning e Dalì, divenendo addirittura il simbolo del consumismo nel celeberrimo dipinto in serie di Andy Warhol. Sembra proprio che la piccola Norma Jeane ormai sia stata completamente assimilata e snaturata da questo successo e dalla voracità dei riflettori, ma in realtà si è solo fatta piccola e più silenziosa. Sono poche le persone che nella sua vita l’hanno davvero saputa leggere e apprezzare nella sua semplicità, tra queste il marito Arthur Miller e l’amico Lee Strasberg – di cui sopra -, conosciute quando, stanca dell’ambiente hollywoodiano, decide di rifugiarsi nel teatro newyorkese per poter esprimere a 360 gradi le sue potenzialità di attrice.


La complessità del personaggio di Marilyn Monroe, soprattutto a seguito della tragica e prematura morte che l’ha come cristallizzata in questa sua eterna e sfolgorante bellezza, è stata ampiamente trattata ed esibita attraverso numerose biografie e film nel corso del tempo. A questo proposito, uno sguardo introspettivo ed intimo dell’attrice è stato proposto da Joyce Carol Oates nel suo romanzo Blonde (1999) che ne dà una visione reinterpretata e romanzata. L’opera di Oates è tornata in auge quest’anno poiché ha saputo ispirare il nuovo film del regista Andrew Dominik presentato quest’anno alla 79^ Mostra del cinema di Venezia suscitando notevole scalpore e dividendo in due l’opinione pubblica.
Con l’interpretazione spettacolare di Ana de Armas che riesce a cogliere i lati più teneri e turbati della bella Marilyn, il film di Dominik ha la capacità di tradurre il romanzo della Oates in immagini (alcune delle quali davvero ispirate e poetiche) che coinvolgono emotivamente e potentemente lo spettatore. Ancora una volta si evidenzia la drammaticità del dualismo presente in Norma Jeane/Marilyn Monroe: da un lato la ragazza ingenua e sognatrice e dall’altro la donna Marilyn che entra nel meccanismo cannibale e maschilista del cinema. Hollywood la imprigiona in una gabbia dorata da cui diviene impossibile evadere imponendole, allo stesso tempo, grandi rinunce e toccandola nel vivo della sua vita privata, costellata di violenze e matrimoni infelici.
Il ritratto più emozionante e intenso di Marilyn rimane comunque quello di Pier Paolo Pasolini che le dedica una poesia all’interno del film La rabbia del 1963 – a un anno dalla morte dell’attrice – di cui riporto qui alcuni versi, ma che invito a leggere e ad ascoltare integralmente online:
Ma tu continuavi ad essere bambina,
sciocca come l’antichità, crudele come il futuro (…).
La tua bellezza sopravvissuta del mondo antico,
richiesta dal mondo futuro, posseduta
dal mondo presente, divenne così un male mortale.
Mi piace pensare a Norma Jeane che, poco più che ventenne, sulla spiaggia di Long Island, durante il servizio fotografico di André de Dienes, correndo incontro sorridente all’obiettivo confida che nella prossima vita avrebbe voluto essere una farfalla. Così, aprendo le braccia al cielo, si abbandona a quello scatto che ce la consegna nella sua essenza di ragazza sognatrice, ma allo stesso tempo “Sibilla di sé stessa”, come scrive Antonio Tabucchi, che nel pensarsi come farfalla, presagisce il futuro effimero a cui queste creature tanto belle, ma tanto fragili, sono destinate.

Immagine di copertina: fotomontaggio realizzato da Margherita Bicocchi.