Illustrazione di neonato con chiave inglese in mano. Sfondo di vegetali.

Perché la crisi ecologica non era il nostro destino (e perché pensarlo è pericoloso)

L’idea che l’Homo sapiens fosse destinato sin dalla sua comparsa a produrre la crisi ambientale è una tesi oggi molto diffusa, ma sbagliata e rischiosa.

«L’imputato siede sul banco. Cognome e nome: Homo sapiens. […] I delitti di cui lo si accusa non sono qualcosa di occasionale […], ma derivano dalla natura intima del soggetto, che fin da molto giovane ha dato mostra di una profonda inclinazione a delinquere»: in queste parole di Guido Chelazzi (L’impronta originale. Storia naturale della colpa ecologica, Torino 2013, p. 3) è contenuta un’interpretazione molto popolare della crisi ambientale, tendente a presentare la specie umana come da sempre naturalmente predisposta a devastare l’ambiente in cui vive e, dunque, a produrre crisi ecologiche. È un’idea che lo storico Yuval Harari, a sua volta, ha sintetizzato in modo efficace definendo l’essere umano un «serial killer ecologico» (Da Sapiens a dei, Milano 2014, p. 90): secondo questa lettura, per tutta la nostra storia noi uomini non avremmo fatto altro che sconvolgere gli equilibri naturali, sicché il disastro ambientale odierno non sarebbe che l’effetto inevitabile della nostra stessa evoluzione (p. 41). 

Ma è davvero così?

 

Il serial killer ecologico

Di questa interpretazione, il filosofo Paolo Missiroli ha svolto una critica in un capitolo del suo libro Teoria critica dell’Antropocene (Mimesis, Milano-Udine 2022), sua recente fatica. 

Sull’idea dell’uomo distruttore seriale di ambienti, scrive Missiroli, influisce una peculiare antropologia negativa (‘negativa’ nel senso che ritiene che l’essere umano sia un vuoto, una pura possibilità di inventarsi, trasformare e negare l’esistente) per la quale l’uomo, proprio in quanto privo di istinti che lo facciano sentire a casa nella natura, sarebbe obbligato a rimpiazzare tale carenza con l’azione tecnica a lui concessa dalla sua superiore intelligenza, con cui plasma a propria immagine il mondo per renderlo accogliente e significarlo (p. 38). Nell’assecondare questa sua natura trasformatrice – affermano i sostenitori di questa tesi –, egli stravolgerebbe, inesorabilmente, gli ambienti che lo circondano, cosa che, a lungo andare, condurrebbe a un inconsapevole – ma inevitabile –  suicidio evolutivo, culminante nella crisi ecologica attuale.

L’immagine dell’uomo come serial-killer ecologico e devastatore di ambienti sarebbe forse piaciuta a Peter Bruegel il Vecchio, che in questo Trionfo della Morte unisce il tema medievale della danza macabra a quello, tipicamente moderno, della follia come cifra di tutto l’agire umano
Peter Bruegel il Vecchio, Il trionfo della Morte (1562), Madrid, Museo del Prado

Contingenza della crisi e critica storica

Questa concezione ‘naturalistica’ (che interpreta cioè il processo che ha condotto alla situazione ecologica attuale come connesso alla natura stessa dell’uomo) comporta, però, pericolosi fraintendimenti.

In primo luogo, sottolinea Missiroli, in essa viene completamente disinnescata la dimensione della critica (p. 44). Infatti, sostenendo che l’Antropocene è il compimento della nostra stessa essenza di specie, questa teoria rende insensato qualsiasi tentativo di individuare dei responsabili storici e politici della crisi ambientale in cui ci troviamo, poiché responsabile ne sarebbe l’intera umanità, che avrebbe ciecamente realizzato ciò a cui era da sempre destinata (p 41).

Tuttavia, basta un semplice esperimento mentale per rendersi conto di come non si possa accantonare il discorso critico sulle responsabilità storico-politiche che hanno condotto all’attuale crisi. Infatti, se questa fosse davvero l’esito necessario della nostra evoluzione di specie, allora la storia umana, se anche ricominciasse da capo, dovrebbe sempre finire per produrre lo stato di cose attuale. Ma questo non può essere vero. L’azione umana ha potuto generare sul Pianeta conseguenze così drammatiche solo in quanto nella nostra storia sono accaduti degli eventi ben precisi, che avrebbero anche potuto non avvenire, e che si connettono ad altrettanto precise scelte politiche ed economiche (cfr. p. 77), quali, per esempio, la scoperta del carbone, la Rivoluzione Industriale che le è connessa, la scelta di prediligere l’energia fossile rispetto a quella idraulica operata da un certo modo di produzione – il capitalismo – anch’esso contingente. Nessuno di questi eventi della storia umana era necessario. E se non fosse accaduto – o se fosse accaduto diversamente –, oggi non saremmo a questo punto.

Inoltre, all’origine di tutto ciò non vi è tutta l’umanità, ma – com’è noto – solo un’esigua parte di essa, quella occidentale. 

Gli effetti della Rivoluzione Industriale sulla campagna inglese in una stampa della seconda metà dell’Ottocento
Samuel Griffiths, The Black Country in the 1870s (1873), in Griffiths’ Guide to the iron trade of Great Britain.

L’«Antropocene prometeico»

L’altro aspetto problematico connesso a quest’interpretazione riguarda il rapporto dell’uomo con la tecnica. La tesi che considera con fatalismo la corsa dell’uomo verso il disastro ecologico è parte di ciò che Missiroli definisce «Antropocene prometeico» (p. 31) – dove l’aggettivo rimanda a Prometeo, l’iniziatore mitico del progresso dell’uomo, e sta a indicare «un atteggiamento […] che esprime la necessità, per l’umano, del dominio e della trasformazione tecnica di tutto ciò che umano non è» (Ibid.). È l’idea di un’umanità naturalmente votata alla trasformazione del mondo, che, oltre a cancellare la critica, implica che si individui proprio nell’azione tecnica la via d’uscita dalla crisi: se infatti per nostra natura non possiamo far altro che manipolare la Terra, è ancora da questo destino tecnico che deve passare la nostra salvezza e quella del Pianeta (p. 42), come, per esempio, attraverso i progetti della cosiddetta geo-ingegneria, sostenuti teoreticamente dall’eco-modernismo (pp. 43-44).

Il punto, però, è che la crisi ambientale dovrebbe, al contrario, renderci consapevoli proprio del limite dell’atteggiamento prometeico e delle nostre illusioni di dominio: del fatto, cioè, che il Sistema Terra in cui viviamo è infinitamente più complesso di qualsiasi nostra agency e che non può esserci nessun cambiamento di natura tecnica, economica e politica che prescinda dalle condizioni materiali entro cui, nell’ecosistema terrestre, ci è possibile vivere (p. 91). L’Antropocene, scrive sempre Missiroli, è l’epoca in cui diviene manifesta non la potenza del ‘serial killer ecologico’ uomo, bensì quella della Terra, che reagisce alla nostra azione e, in virtù dell’irreversibilità dei processi innescati, inaugura una situazione ecologica alla quale non è più in nostro potere rimediare (p. 129). 

Fotografia di Edward Burtynsky di una miniera di carbone in Germania, parte della mostra Anthropocene allestita al MAST di Bologna dal 16/05/2019 al 05/01/2020.
Edward Burtynsky, Coal Mine #1, North Rhine, Westphalia, Germany (dettaglio), 2015, photo © Edward Burtynsky.

Abitare l’Antropocene

La tesi che vede nella catastrofe ambientale l’esito naturale dell’evoluzione umana, dunque, non solo sbaglia nell’individuare l’origine della crisi, sorvolando sulle responsabilità storiche e politiche che hanno contribuito a generarla, ma – fantasticando su vie d’uscita tecniche da essa – non comprende nemmeno la vera questione oggi in gioco: la riflessione su pratiche di vita e forme politico-sociali differenti da quelle attuali, che declinino diversamente il nostro abitare la Terra, all’interno dell’orizzonte – ormai insuperabile – dell’Antropocene (p. 128).

 

L’articolo è stato ispirato dalla lettura del testo di Paolo Missiroli. Tuttavia, non pretende di esserne una sintesi e a ciò vanno ricondotte eventuali differenze.

Immagine di copertina: Illustrazione di Anna-Maria Stefini.

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