
Poter vivere in tranquillità senza dover mettere in discussione il concetto di merito è un privilegio. Può capitare di pensare <<Sono sempre andat* bene a scuola, mi sono laureat* in tempo, ho ottenuto un buon lavoro perché mi sono impegnat*, ho rinunciato a fare alcune cose che avrei fatto volentieri. Me lo merito>>. Finché si pensa al merito in prospettiva individualista e astratta, questo ragionamento non è particolarmente problematico. Impegnarsi per ottenere ciò che si vuole o si pensa giusto, in questo senso, non può che essere un valore, una spinta proattiva nei confronti della realizzazione personale. Quando però viene applicato a livello sociale, il concetto di merito mostra il fianco.
In un contesto privato, come quello familiare o affettivo, il merito diventa ricatto: il corto circuito che consiste nel pensare di doversi meritare l’affetto svuota l’amore della gratuità che lo definisce, rendendolo condizionale. In un contesto pubblico, come quello lavorativo, il discorso meritocratico supporta lo status quo portando a pensare che differenze di occupazione, reddito e di conseguenza di qualità della vita e soddisfazione personale, siano da spiegarsi esclusivamente in termini di impegno individuale. Inoltre, se pensato solo in senso astratto, il discorso sul merito tende a ignorare che non tutte le persone nascono e crescono in pari condizioni materiali, e che essere giudicat* degni di merito diventa incredibilmente più facile per chi appartiene alle classi più abbienti. I lavori meglio pagati spesso corrispondono a quelli che richiedono anni di educazione ed esperienze lavorative pregresse, che necessitano di supporto familiare. Con le parole di Owen Jones in Chavs: The demonization of the Working Class «Meritocracy ends up becoming a rubber stamp for existing inequalities, rebranding them as deserved»¹.
Un operatore sanitario (OSS) viene pagato dai 18 mila ai 22 mila euro lordi l’anno, mentre un direttore marketing viene pagato da 65 mila a 270 mila euro lordi l’anno. Di fatto, la differenza salariale tra queste due occupazioni, come tante altre agli estremi dello spettro della retribuzione, dipende dalla ricchezza – in termini di profitto – che le due posizioni creano, e viene facilmente giustificata in termini di merito. Se però si pensa all’effetto tangibile che le due professioni hanno sulla vita quotidiana del cittadino medio, intuitivamente, quel minimo di 40 mila euro di differenza appare immediatamente ingiustificato, se non ingiustificabile.

Vale la pena quindi chiedersi se esiste un sistema di distribuzione dei salari più intuitivo. O meglio, se esiste un sistema – diverso – non solo più desiderabile, ma anche altrettanto applicabile. Forse potrebbe esistere, ma richiederebbe un ripensamento alla base del sistema valoriale attraverso il quale ci approcciamo al lavoro.
Non potendo solo basarci sull’intuizione di cosa è giusto e cosa è sbagliato, per giustificare tale rivoluzione valoriale, serve affidarsi a dati e metodi replicabili di analisi. Prendiamo ad esempio il report A bit rich, pubblicato nel 2009 a seguito della crisi finanziaria dell’anno precedente, dalla New Economics Foundation (NEF), un think-tank indipendente britannico. Il report si basa sulla Social Return on Investment Analysis che valuta la portata sociale, ambientale ed economica di diverse occupazioni. In parole povere, l’idea alla base dell’analisi consiste nel calcolare la ricchezza che una posizione lavorativa produce, considerando anche le externalities, ovvero tutto ciò che non rientra nei costi di produzione ma che ha impatto a livello sociale. Ad esempio, l’emissione di monossido di carbonio viene considerata come externality a impatto negativo, mentre la creazione di nuove opportunità di lavoro vale come externality a impatto positivo. Il NEF ha calcolato che un advertising executive (con salario compreso tra i 500 mila e 12 milioni di sterline l’anno) per ogni sterlina guadagnata, ne toglie 11 alla comunità (creando più externalities negative che positive), mentre una persona addetta alle pulizie in ospedale (con salario minimo), per ogni sterlina guadagnata, ne restituisce 10 alla comunità (creando quindi più externalities positive che negative). Non per ultimo, A bit rich non si è limitato a esporre l’ingiustificabilità della disparità salariale tra le due posizioni, ma ha anche redatto una lista dai cambiamenti implementabili a favore di una ridistribuzione valoriale e materiale: tra gli altri l’introdurre un sistema di tassazione più progressivo, l’investire nell’assistenza sanitaria infantile universale, l’incoraggiare nuove forme di proprietà e il ripensare al ruolo delle grandi città come centri finanziari.
L’analisi riportata dal NEF non si può applicare acriticamente al contesto italiano. Tra le altre cose il Regno Unito ha già una politica sul minimo salariale (imprescindibile, ma comunque non sufficiente a ridurre il divario), che l’Italia, tra le poche eccezioni in EU, ancora non ha. Inoltre, per valutare la qualità e la validità dell’analisi stessa servirebbero ulteriori studi. Ma, a prescindere dall’accuratezza del report, quello che si dovrebbe apprezzare è il metodo, che passa dal notare qualcosa di intuitivamente sbagliato, alla ricerca, alla proposta concreta di alternative a cui non può che conseguire una proposta politica.
Mettere in discussione il sistema valoriale con cui siamo cresciut* ed a cui siamo stat* educat*, se inteso come stimolo per un’analisi qualitativa e quantitativa di ciò che percepiamo ingiusto, non è soltanto un esercizio di pensiero, ma slancio attivo nei confronti di un futuro migliore.
Immagine di copertina: Dettaglio da “Chaque chose a sa place”, Lougraou, 2007.